Lunedì, 02 Febbraio 2015 21:34

Elementi di psicodinamica di gruppo

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Elementi di dinamica di gruppo


1. Due fondamentali categorie di gruppo
La comunità ecclesiale, grande o piccola che sia, articolata in istituzioni vaste o ristrette, è raggrupparnento, aggregazione sociale, gruppo. Come tale può incarnarsi, anzitutto, nella forma più semplice di gruppo primario. E’ il piccolo gruppo, quello in cui le relazioni sono caratterizzate da un’interazione faccia a faccia, cioè diretta, non mediata da strutture, schermi formali, ruoli istituzionalizzati. Molti cristiani (persone consacrate e non) vivono questo tipo di riferimento e appartenenza, che molto ha in comune con quello familiare.
Le più complesse realtà ecclesiali, poi, sono distinguibili in gruppi secondari. Gli ordini religiosi, le diocesi, le associazioni, i movimenti nei loro risvolti più istituzionali, rientrano in questo genere di raggruppamento, la cui caratteristica essenziale è la perdita del contatto diretto-immediato, da persona a persona.
Già questa semplice distinzione dovrebbe risultare avvertenza ad evitare false aspettative. Pensare che la Chiesa tutta debba mantenere le caratteristiche di comunità domestica e mai trasformarsi in istituzione sia convinzione campata in aria.
In quanto «distinzione» ci permette di capire, inoltre, che non può esservi divisione né soluzione di continuità La comunità cristiana gruppo primario (la comunità parrocchiale, giovanile, d’ambiente) non può non essere in osmosi con e aperta alla comunità cristiana gruppo secondario (chiesa locale o diocesana, Chiesa universale). Pena: il proprio ripiegamento e chiusura, col rischio di perdere il senso della propria identità e missione. Vero è anche il contrario. La più vasta realtà ecclesiale non può smarrire il contatto con la dimensione umano-cristiana dei due o tre riuniti nel Suo nome, della stretta unità familiare e amicale, propria dell’amore. Si andrebbe incontro a un nuovo pericolo di snaturamento.

2. Finalità e definizione del gruppo ecclesiale. Sua specificità.

Al di là della definizione strutturale di gruppo, appena fornita, occorre non trascurarne la determinazione in ordine alle finalità che, al suo interno, ci si prefigge di raggiungere.
In questa prospettiva è rilevabile l’esistenza di diversi tipi di gruppo. Schematicamente li riconduciamo entro questi tre filoni generali: il gruppo didattico (per esempio, la scuola nei suoi ordini e gradi) per l’apprendimento; il gruppo professionale (per esempio, una squadra di operai, gli impiegati di un ufficio, un collegio docenti) per il lavoro; il gruppo terapeutico (il terapista e i suoi « pazienti » impegnati in un lavoro di crescita secondo questo o quell’indirizzo) per la guarigione.
Poco preoccupati di fornire un’esauriente classificazione (dove collocare, per esempio, un’associazione a delinquere?), ci preme sottolineare qui come ogni gruppo sia definibile in rapporto agli scopi che intende perseguire. Stando perciò alla nostra un po’ rozza tipologia triadica, si riesce a intuire che un gruppo ecclesiale contenga elementi finalistici dell’uno e dell’altro tipo di aggregazione.
Dall’angolatura in cui ci poniamo, ci piace però insistere maggiormente sul confronto tra gruppo ecclesiale o comunità cristiana e gruppo terapeutico. Quest’ultimo si pone, quale obiettivo precipuo, quello di aiutare i membri partecipanti a superare difficoltà e tensioni personali o interpersonali, di natura più o meno psicopatologica. Punta alla conoscenza, accettazione e superamento di sé fino - laddove sia possibile - ad una sentita « ri-decisione » e cambiamento risolutivi. Qualcosa di analogo si può dire della comunità cristiana che, come tale, si prefigge di sostenere i battezzati, di favorirne l’effettiva crescita, conversione e trasformazione in Cristo, fino alla piena maturità e personalizzata identificazione.
Superamento e trasformazione di sé sono mète comuni ai due generi di gruppo che stiamo confrontando. Non deve sfuggire, però, che qualitativamente differenti possono essere i contenuti o punti di riferimento cui si aprono, e i processi di tensione al miglioramento che presuppongono e, a un tempo, innescano. Così, il gruppo terapeutico si apre soprattutto sull’orizzonte costituito dai valori naturali. Il gruppo ecclesiale invece, in quanto ambito ed espressione della vocazione cristiana, sembra spalancarsi primariamente sull’orizzonte segnato dai valori autotrascendentil cioè i valori morali e religiosi, propri della prima dimensione, « la tendenza... prevalentemente conscia (e cosciente), quella delle nostre capacità per la virtù o il peccato».
Ancora, il gruppo terapeutico presuppone e rinforza un processo di superamento di sé che, da un lato, è di autotrascendenza egocentrica cioè di espressione e compimento delle risorse nascoste dell’Io; dall’altro, è di autotrascendenza filantropico-sociale vale a dire in vista della buona realizzazione dei rapporti con gli altri, della promozione della comunità umana, del perfezionamento dell’umanità. La comunità cristiana, invece, data la sua intrinseca apertura ai valori autotrascendenti, morali e religiosi, pur richiedendo lo stesso duplice processo, ne presuppone uno ancora più ampio e comprensivo del precedente: quello dell’amore gratuito e disinteressato. Esso è distacco da e superamento di sé per raggiungere Dio. In questo movimento, la persona, come di rimbalzo, ottiene la realizzazione di sé e il bene del gruppo cui appartiene.
Da tutto ciò deriva con chiarezza che il gruppo terapeutico è definibile come ambito di autorealizzazione personale nel rispetto degli altri; di integrazione del singolo e del gruppo in un prevalente accordo coi valori naturali, cioè i valori della sensibilità, fisicità, i valori economici, della conoscenza, quelli estetico-artistici, della socialità e, limitatamente, certi beni spirituali. Il gruppo ecclesiale, invece, appare come luogo o comunità in cui dovrebbe essere privilegiati il primato dei valori e dell’amore teocentrici. Proprio per questo, la comunità cristiana, nelle sue più variegate espressioni, non può mai criteriarsi sulla base del sentirsi realizzato del singolo o dello star bene insieme del gruppo, che la porterebbe, con buona probabilità, a trasformarsi più in un club sociale o di buoni amiconi. Suo movente centrale dovrà essere sempre un di più: il di più di un amore disinteressato che impegna la persona nella sua totalità, e la fa tendere alla familiarità con Dio e con gli uomini-fratelli .

L'ESERCIZIO DELLA LEADERSHIP


Tra gli aspetti che ci sembrano essere più significativi nella vita di una comunità cristiana ed ecclesiale, e su cui sorge spontanea la riflessione, va annoverata senz’altro la funzione di guida e direzione del gruppo, l’esercizio di un’influenza autorevole al suo interno.

1. Due modi di essere leadership

Come ci ha permesso di capire la descrizione del modello di assunzione del ruolo, sopra tracciata, è inevitabile che, nella relazione con una o più persone, si diano influenze reciproche. Ogni comunicazione e interazione non va mai vista, per così dire, a senso unico. Si danno sempre intrecci di azioni e reazioni, e, di conseguenza, anche se differenziate, ripartizioni di responsabilità. Tutto ciò, poi, viene amplificato nel contesto odierno, culturalmente caratterizzato da spiccate tendenze democraticizzanti, e aventi le loro ripercussioni anche sulla comunità sui generis, ma pur sempre "sistema aperto", che è la Chiesa, e, con essa, tutte le sue manifestazioni di presenza sociale.
Se nelle relazioni interpersonali si dà una certa reciprocità di influenze, ciò significa che, dentro ogni comunità e gruppo, possono entrare in azione due fondamentali modi di essere leadership. In primo luogo, va riconosciuta una leadership formale, detta pure legittima o di posizione o di autorità. E’ legata al ruolo ufficialmente attribuito e ricoperto da una determinata persona o gruppo di persone nell’esercizio di un potere sugli altri. In secondo luogo, va indicata una leadership funzionale o di persona o di responsabilità. Essa è legata alla capacità di esercitare un effettivo influsso sugli altri e sul gruppo, pur non ricoprendo alcun ruolo di autorità.
In questa prospettiva si può comprendere, quindi, come molta contestazione si fondi essenzialmente sulla realtà di questi due modi di essere leadership, vissuti secondo una contrapposizione, spesso scarsamente illuminata dai valori evangelici e comunionali
Le conclusioni più evidenti, che vanno tirate e tenute presenti in vita comunitaria, possono essere, di seguito, così formulate. Prima: l’autorità formalmente costituita, non è di certo l’unico genere di autorità . Seconda: facendo nostro ciò che veniva sentenziato con efficacia lapidaria e sottile ironia ne La fattoria degli animali di G. Orwell, tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri , sottolineamo quanto sia illusorio pensare che in una comunità si possa essere tutti fratelli senza - per così dire - avere un padre. In breve tempo, qualcuno, spontaneamente, farebbe da padrone! O che tutti si facesse - in senso soltanto analogico!
2. Le sei sorgenti di potere
Ma a quale pozzo si attinge il potere, cioè la reale capacità di esercitare un’influenza sugli altri, sia nelle vesti di leaders « legittimi », sia in quelle di leaders « funzionali »?
Anzitutto, il potere legittimo: inerisce alla persona investita di autorità « formale », in virtù della posizione stessa che ricopre. E l’ascendente che scaturisce intrinsecamente dall’essere « il superiore » nella situazione. Abbiamo, ancora, il potere coercitivo e il potere remunerativo: sono propri di chi, come si dice, tiene il coltello dalla parte del manico. Si esprimono, l’uno come suscitatore di apprensione per gli effetti frustranti che potrebbero seguire a una qualche trasgressione; l’altro, come capace di provocare un senso di euforica attrazione per i vantaggi che deriverebbero dal conformarsi ane richieste dell’influenzante, cioè del superiore. C’è, poi, il potere informativo: deriva dal possesso di alcune notizie o determinate informazioni che altri non hanno. Incarna il proverbiale motto « sapere è potere ». Vien presentato anche il potere di competenza o di perizia: è riconducibile alla forza che scaturisce dalla credibilità della persona influenzante. Questa è credibile sia perché viene riconosciuta competente, sia perché viene percepita come essere degna di fiducia. Il «saper le cose», in questo caso, a differenza di quanto accade per il potere di informazione, esercita un influsso più a partire dalla fonte personale influente e dalla sua credibilità che non dal contenuto, preso in se stesso, delle verità possedute. Infine, abbiamo il potere di riferimento. In estrema sintesi, può essere definito come l’attrazione che una persona esercita sugli altri. Tale attrazione « carismatica » è essenzialmente legata ad una simpatia dovuta a somiglianza o a complementarietà.
Come si può facilmente intuire, le prime tre fonti di potere sono strettamente connesse con l’essere leadership di posizione o di autorità. Le ultime tre possono essere a portata di mano di chiunque; ad esse può attingere il leader formale come qualsiasi altro membro partecipante alla vita della comunità.
Infine, c’è da rilevare come queste sei sorgenti di potere - fermo restando che il loro buon uso sia notevolmente legato alla libertà degli individui, che da loro attingono, e alla qualità delle psicodinamiche personali.

3. Stili di leadership formale
Se è vero, come abbiamo visto, che all’interno di ogni gruppo sociale può darsi l’influsso di una leadership funzionale o di persona, ciò non toglie che un ruolo costituzionalmente importante venga svolto dai leaders formali, legittimi, coloro che impersonano l’autorità.
Dalla nostra prospettiva di dinamica di gruppo, si può rilevare che le concrete modalità, in cui tende ad incarnarsi ogni esercizio di leadership formale, siano comprese ed oscillino tra due polarità estreme. Da un lato, fa spicco lo stile di leadership autoritaria: « è presente quando tutte le determinazioni di politica fin nei più piccoli dettagli di comportamento sono fatte dal leader». Dall’altro, si staglia lo stile di leadership permissiva o laissez-faire: « quando c’è completa libertà di decisione di gruppo o di individuo senza partecipazione o solo con un minimo di partecipazione da parte del leader ».
Senza entrare nel merito di un’analisi più approfondita su quelli che potrebbero essere gli effetti sul gruppo prodotti dall’uno o dall’altro degli stili praticati, cerchiamo piuttosto di cogliere alcuni dei motivi che possono dar ragione del loro insorgere. Fondamentalmente in due aree, vaste e complesse, rintracciamo le radici da cui possono attingere linfa vitale questi due stili di leadership. Una è quella istituzionale; l’altra, quella legata alla personalità del leader.
Della prima si è già visto qualcosa quando accennavamo ai sistemi organizzativi e al loro influsso nelle interazioni di gruppo.
Mi preme sottolineare alcuni quadri tipologici mediati dalle descrizioni di comportamenti psicopatologici.
Anzitutto, possiamo prendere in considerazione il leader dalla personalità caratterizzata da tratti schizoidi. Chiuso nel proprio mondo, appare come una figura distante e inaccessibile. Affettivamente isolato, non rischia di certo di rimanere vittima dei processi regressivi del gruppo, ma anzi, l’esatto contrario, trasformandosi in sorgente di frustrazione anche delle più normali ed innocue esigenze di dipendenza delle persone. Per l’incapacità di rapportarsi con gli altri e raccordarli tra loro, non solo può suscitare l’impressione di freddezza, ma anche quella di assenza dalle vicende dei singoli e del gruppo, fino a far credere che manchi la figura di autorità, e che nessuno svolga funzioni direttive
C’è, poi, il leader dai tratti ossessivi. E’ la figura di autorità fautrice dell’ordine, della chiarezza e precisione in tutto. Le personalità più gravemente colpite da questo stile possono essere assillate da dubbi ed esitazioni. In questo caso si potrebbe avere un leader in difficoltà nell’assumersi le proprie responsabilità di fronte al gruppo e nel prendere le necessarie decisioni. Nel caso in cui dovessero invece prevalere la spinta al perfezionismo e il chiodo fisso dell’efficacia e del massimo rendimento, potrebbe mostrarsi così pedante nelle sue pretese da rendersi insopportabile. Nei casi estremi, gli riuscirebbe difficile evitare manifestazioni di vero e proprio sadismo.
Si può descrivere, ancora, il leader dalla personalità paranoide. E’ quello che si sente costantemente minacciato, nella sua funzione di autorità, da invisibili nemici, esterni ed interni al gruppo. Proprio per questo gli è congeniale il rischio di «percepire persino le normali discussioni o i piccoli dissensi come pericolose ribellioni e potenziali attacchi occulti». Qualora non riuscisse a concentrare questo senso di minaccia su qualche gruppo o persona o forza esterne, potrebbe investirlo sul proprio gruppo in generale, o su qualche persona a rendere estremamente complicate comunicazione, collaborazione e relazioni interne. Le conseguenze estreme, che potrebbero derivare dai comportamenti di un simile leader, sono chiaramente documentate dalla storia, e, nella storia passata e presente, da famosi personaggi quali l’imperatore Nerone, Hitler, certi colonnelli o capi religiosi o dittatori.
L’ultimo schizzo è per il leader dai tratti narcisistici. E’ questo un tipo di leader che, secondo le possibilità di tutta una vasta gamma, possiamo ritrovare, abbastanza facilmente, a capo dei gruppi, delle comunità e organizzazioni sociali e lui e a idealizzarlo. Ancora: «aspirerà soprattutto a esercitare un potere primitivo sugli altri, a ricevere in misura sproporzionata ammirazione e rispetto timoroso ».
Prendendo le mosse da queste abbozzate caricature, raffrontandole coi due stili di leadership autoritaria e laissez-faire, ci sembra di poter pervenire a queste schematiche conclusioni. La personalità di leader dai tratti ossessivi, ma non del tipo esitante e dubbioso; quella dai tratti paranoidi; quella più narcisistica, facilmente incarneranno uno stile di leadership autoritaria, dura, risoluta. La personalità dai tratti schizoidi come pure quella ossessiva, però secondo la versione più incerta e titubante, facilmente esprimeranno una leadership permissiva, cioè arrendevole, senza nerbo e cipiglio.

Il vero leader è colui che sa rendersi superfluo: cfr Socrate, Giovanni Battista, Gesù Cristo


INFLUENZE NEGATIVE DEL GRUPPO SUL PROCESSO DELLA CRESCITA CRISTIANA


Passiamo ora ad affrontare alcune delle dinamiche che possono risultare davvero dannose ai fini di una reale crescita cristiana.

1. Relazioni regressive
Uno dei più robusti nodi problematici nella vita comunitaria in genere, ma, soprattutto, in quella che trova nella sequela di Cristo le ragioni della propria esistenza, va ricercato nelle relazioni trasferenziali o di traslazione. Si ha una trasferenza « quando il soggetto, nella sua relazione con le autorità e con i compagni, rivive una relazione che egli ha già avuto con i membri della sua famiglia durante l’infanzia e l’adolescenza». Di solito, la si può vedere in azione, in termini positivi, allorché si constata che c’è «un troppo», per esempio di dipendenza, nella relazione con qualcuno (= trasferenza positiva); o, in termini negativi, quando si tocca con mano la presenza di « un troppo » di astio, aggressività, rivalità (= trasferenza negativa). In ambedue i casi si tratta di « un troppo » che ha radici emotive infantili, legate al proprio passato, non ancora superate e integrate nella personalità che dovrebbe caratterizzare un adulto. Più in generale, c’è chi definisce la traslazione con queste parole: « è il trasferimento nell’età adulta della percezione del mondo sviluppata nell’infanzia, che in genere è perfettamente adeguata alla nostra condizione infantile ma che è assolutamente inadeguata alla nostra condizione di adulti », Proprio in tal senso è efficace chiamarla anche «mappa scaduta».
Comunque vengano sfumatamente intese, le relazioni trasferenziali sembrano costituire un grosso ostacolo al reale progresso delle persone e dei gruppi, sia da un punto di vista umano-naturale, sia da un punto di vista cristiano-vocazionale. Da un lato, infatti, non promuovono vere amicizie, né rapporti di intesa pur nella diversità; dall’altro, e ancor più, possono presentarsi come blocchi veri e propri all’appropriazione di valori esigenti quali, per esempio, il primato del dono. Richiamarsi alla loro esistenza ci sembra non secondario, sapendo tra l’altro che sono quanto mai diffuse nei gruppi giovanili.
Nel caso in cui dovessero prevalere tali processi regressivi anche in seno a gruppi ecclesiali, ad esperienze cristiane, costituirebbe un vero miracolo il trovar persone ancora incamminate verso gli obiettivi della maturità dell’amore.

2. Le cerchie esclusive
Dagli accenni fatti sulla realtà delle relazioni trasferenziali, si può facilmente pervenire alla constatazione di un’altra realtà interpersonale, per nulla costruttiva in ordine alle più genuine finalità della comunità-chiesa. Si tratta del riconoscimento, all’interno della comunità più vasta, di sottogruppi informali o cricche spontanee. A tale constatazione si può pervenire senza essere necessariamente competenti in dinamica di gruppo, ed esprimerla magari ricorrendo a vocaboli, familiari ai cronisti della quotidianità sociale, quali, per esempio, clan, mafie, gruppi di potere occulto, o, come si esprimeva C.S. Lewis, "cerchie esclusive".
Ciò che caratterizza queste aggregazioni dall’insorgere spontaneo è quello di essere coalizioni o alleanze basate più su bisogni psico-sociali in contrasto coi valori cristiani (il bisogno di dipendenza affettiva, di mancanza di fiducia in sé, di aggressività, di evitare l’inferiorità, ecc.), che non sui valori stessi, sostenuti da energie a loro corrispondenti (il bisogno di affiliazione, di aiutare gli altri, ecc. ,).
Un’interessante classificazione di questi sottogruppi è stata presentata, senza grosse pretese scientifiche, da A. Cencini. Egli parla così di gruppo dei «potenti », generalmente composto da coloro che sono in un conflitto, più o meno aperto, con l’autorità legittima. Ancora, di « gregari-parassiti », gente che vive all’ombra dei « potenti », ai quali dà passivamente man forte nei contrasti coi superiori. Individua, poi, i «pacifisti-menefreghisti », quelli, per intenderci, del « vogliamoci bene », e che non tollerano gli inevitabili contrasti e difficoltà relazionali. Parla anche degli « accoppiati » (si tratta di gruppi diadici), cioè di coloro che, più che gruppi, formano coppie fisse di « amici » intimi. Infine, individua persone singole che definisce, rispettivamente, « integrate», se dipendenti in modo esagerato dall’autorità costltulta e dalla struttura istituzionale; «indipendenti arruolate », se isolate perché del tutto dedite all’apprendimento di ruoli che possono fruttar loro meriti, affermazione, successo; « indipendenti autonome », se fondamentalmente personalità mature e libere, aperte ai pari come ai superiori, ed ispirate, nella loro azione comunitaria, dai valori autotrascendenti.

3. Meccanismi difensivi di gruppo
Occorre anche tener presente come il gruppo o comunità in quanto tale, oppure le cricche spontanee di cui sopra, possano ulteriormente rendere difficile il cammino della crescita cristiana in virtù di alcuni meccanismi difensivi. Qui, ci limitiamo a evidenziarne due: uno, di natura difensiva interna; l’altro, di natura difensiva esterna.
Col primo, intendiamo riferirci alla cosiddetta pressione di gruppo. E’ la dinamica con cui il gruppo o sottogruppo tende a conformare a sé, alle proprie opinioni e aspettative un individuo o più individui, siano essi figure di autorità o pari. In altre parole, è il tentativo di uniformare, e così rendere innocuo, chi, in un modo o in un altro, sta minacciando dall’interno, con i propri comportamenti e prese di posizione « originali », la coesione stessa del gruppo. In molti casi è quest’ultimo ad avere la meglio sul singolo. Una delle cose che più colpisce e preoccupa in questa operazione di omologazione conformistica, è che le singole persone psicologicamente «violentate», pervengano ad una «distorsione di giudizio» anche a discapito del loro, precedentemente formulato in termini di verità. Tale fenomeno non può che essere deleterio, specie se si verifica a un livello inconscio, quando viene a coinvolgere, mettendole in pericolo, la verità e oggettività stessa dei valori.
Il secondo meccanismo difensivo di gruppo, cui accennavamo poc’anzi, quello impegnato a difendere più il versante esterno che non interno, è definito pensiero di gruppo. Si tratta essenzialmente di un meccanismo difensivo di fuga dal diretto contatto con la realtà e gli eventuali problemi che essa pone al gruppo. Così facendo, ci si illude di essere gruppo invulnerabile, non bisognoso di correzioni. Le valutazioni negative sono solo per coloro che si pongono in contrasto con le posizioni e gli scopi del gruppo. A parte certi fiaschi storici cui un simile meccanismo difensivo ha condotto, inerisce ad esso un pericolo sempre in agguato e incontrabile nella quotidianità della vita comunitaria: quello di chiudere gli occhi su tutto ciò che è percepito come minaccioso per la bella immagine di sé e del proprio gruppo. In una parola, specie all’interno di una comunità cristiana, esso impedisce di riconoscere gli aspetti concreti su cui impegnarsi in un lavoro di conversione, ed essere così, meno indegnamente e più autenticamente, comunità ecclesiale.

2. Funzionamento dell’animazione di gruppo

UN MODELLO DI FUNZIONAMENTO QUADRIDIMENSIONALE DELLA ANIMAZIONE DI GRUPPO


Qui di seguito presenteremo un modello che descrive in modo molto semplificato le quattro funzioni fondamentali di ogni animatore, e cioè la stimolazione dell'emotività, I'espressione della valorizzazione personale, l'offerta di spiegazioni e la strutturazione.

Stimolazione dell'emotività

Con tale espressione viene indicato un comportamento dell'animatore mediante il quale egli esprime le sue proprie sensazioni, atteggiamenti e punti di vista, e provoca ed entra in confronto con i partecipanti. Vi è compreso inoltre ogni tipo di comportamento con cui l'animatore concentra l'attenzione del gruppo sulla sua persona. Detto in termini tecnici, questo comportamento dell'animatore aiuta in parte a mettere in movimento i sentimenti nei partecipanti mediante «dimostrazione»: egli precede per così dire come partecipante/modello e mostra esemplarmente come e cosa anche un partecipante nel gruppo può fare. D'altra parte questo comportamento scaturisce naturalmente anche dai bisogni di autorappresentazione da parte dell'animatore o dal proprio desiderio di comportarsi almeno parzialmente come un partecipante.
Un'elevata misura di stimolazione emotiva porta a uno stile molto personale di conduzione di gruppo, per cui l'animatore si trova più o meno spesso al centro del gruppo, e con la sua influenza personale e con il peso della sua personalità stimola il gruppo a porsi in discussione con lui. La personale irradiazione dell'animatore e il suo carisma inducono di fatto tutta una serie di partecipanti a dare motivazioni, a esporsi in modo altrettanto forte. Gli animatori che lavorano con un elevato grado di stimolazione emotiva, considerano ciò come un indispensabile presupposto di apprendimento per i partecipanti, perché li mette in una situazione di «disagio» ed è in grado di tirarli fuori dai binari abituali di comportamento. Inoltre mette a confronto anche i partecipanti con il grado di accettazione che hanno di sé e del loro effetto sugli altri.
Gli animatori che lavorano prevalentemente con la stimolazione dell'emotività, verranno percepiti da molti partecipanti come carismatici, come sorgente di ispirazione. Se questi animatori fanno relativamente pochi sforzi per aiutare i partecipanti a comprendere meglio il loro comportamento e a decidersi sui cambiamenti di comportamento, e se inoltre non includono nel loro lavoro la disponibilità d'aiuto che i partecipanti possono offrirsi l'un l'altro, allora questo stile diventerà sospetto. Uno stile di conduzione di gruppo la cui funzione principale è la stimolazione emotiva, sottolinea eccessivamente la centralità della persona dell'animatore e ignora l'importante potenziale del gruppo. L'animatore troppo carismatico appare dunque una caricatura come l'animatore troppo insicuro.
D'altra parte non deve essere misconosciuto il fatto che in determinate situazioni e di fronte a particolari partecipanti la stimolazione emotiva può essere straordinariamente fruttuosa, come stimolo per i partecipanti a scoprire di più se stessi e a fare un conto maggiore della propria personalità. In particolare quando si esprimono sentimenti aggressivi, l'animatore deve chiedersi quanto un concreto gruppo o un concreto partecipante siano capaci di affrontare questa situazione.

Espressione della valorizzazione personale

Questa è la seconda dimensione del comportamento dell'animatore di gruppo. Essa si esprime come un prendere le parti o protezione nei confronti dei partecipanti mediante manifestazioni di sentimenti amichevoli e con gesti di simpatia, sostegno, riconoscimento e incoraggiamento.
Le basi per una tale condotta dell'animatore sono: calore personale, accettazione del partecipante così come egli è, e un reale interesse verso la sua persona. Gli animatori che esprimono spesso la propria personale stima per i componenti del gruppo, verranno percepiti come generosi, comprensivi, premurosi, simpatici, caldi, aperti e amichevoli. Sono il contropolo degli animatori orientati più all'uso delle tecniche, decisi, duri, competenti e intellettuali.
L'espressione della stima personale è senza dubbio la più importante dimensione di ogni comportamento dell'animatore, poiché essa risponde ai bisogni fondamentali dei partecipanti, che sono quelli di appartenenza e di essere riconosciuti e rispettati. Purtroppo nella prassi si vede continuamente che molti animatori simulano questa dimensione, ed esprimono amicizia e comprensione che non sentono: questo accade particolarmente spesso agli animatori che hanno ricevuto una formazione superficiale nelle tecniche di terapia di dialogo e che impiegano questa dimensione di comportamento come requisito tecnico, e non perché essi sentono simpatia o amicizia. Una pseudo-stima limita fortemente la realizzazione dell'interazione personale tra l'animatore e i partecipanti; anzi, io la ritengo persino dannosa.

Offerta di spiegazioni


Si intende qui tutto ciò che l'animatore mette in atto per spiegare ai partecipanti i concetti e le connessioni funzionali, perché possano comprendere meglio il proprio comportamento e i processi di gruppo.
L'animatore offre ai partecipanti un'adeguata rete concettuale riguardo ai processi dello sviluppo della personalità, all'apprendimento, all'interazione, allo sviluppo del gruppo, e così via.
Alcuni animatori inoltre procedono in modo da rivolgere preferibilmente le loro interpretazioni nei confronti dell'intero gruppo. Essi accentuano così il processo di gruppo, I'interazione sociale, e stimolano spesso il gruppo a riflettere sulla sua attuale situazione e a prendere in analisi ogni evento del gruppo stesso.
Altri animatori invece sono principalmente interessati a far sì che il singolo partecipante rifletta sulla sua situazione, comprenda le sue sensazioni, valutazioni, il suo stile di interazione, ecc. avvalendosi di adeguati modelli e concetti psicologici che aiutano il partecipante a mettere un certo ordine nelle sue esperienze.
Maggiormente efficaci sono gli animatori che combinano entrambi gli aspetti, mettendo in relazione reciproca il comportamento individuale e quello di gruppo. Con questo comportamento, che sta più sul versante del didattico, I'animatore assume una funzione simile a quella dei genitori, educatori, ecc. Gli animatori efficaci utilizzano perciò questa funzione in modo coerente ma con misura, per non provocare nei partecipanti reazioni di difesa e per non togliere loro propri sforzi possibili e necessari. Gli animatori che mettono in atto questa dimensione in modo esagerato, uccidono l'interazione e l'iniziativa dei partecipanti. Essi trasformano il gruppo in un seminario accademico.

Strutturazione

Questa è la quarta dimensione della conduzione di gruppo. Si tratta del comportamento dell'animatore che pone limiti, propone o definisce regole del gioco, e stabilisce norme che riguardano gli obiettivi di gruppo, lo stile di lavoro, la successione delle diverse attività e così via. Tramite strutturazioni l'animatore regola la progressione del gruppo, e il termine di una determinata attività. Fa parte di tale dimensione inoltre la proposta di esperimenti da parte dell'animatore al gruppo o a un singolo, e l'occuparsi di quando e di quali decisioni vengono prese, ecc.
Gli animatori che utilizzano di preferenza questa funzione, stimolano i partecipanti più tramite proposte che tramite la propria dimostrazione. Essi vengono percepiti dai partecipanti come una specie di registi che avviano o fermano l'azione. In più questi animatori hanno la tendenza a determinare da soli gli obiettivi di apprendimento dei partecipanti e a stabilire le vie di come raggiungerli. Essi inclinano inoltre a proporre esperimenti strutturati, e facilmente in questo modo tendono ad abusare dei giochi di interazione.

Con queste quattro dimensioni del comportamento dell'animatore che abbiamo accennato, abbiamo a che fare naturalmente con rappresentazioni di tipo ideale. Ogni animatore in concreto metterà in atto sempre qualcosa da tutte e quattro le dimensioni. La combinazione specifica di queste quattro funzioni di conduzione del gruppo conferisce e definisce lo «stile> dell'animatore considerato e decide dell'efficacia del suo lavoro.
Lo stile di conduzione più vantaggioso per gruppi di interazione che potrebbe andar bene alla maggior parte dei partecipanti, viene messo in pratica dagli animatori che fanno un uso moderato della stimolazione emotiva, esprimono spesso stima personale, offrono sufficienti spiegazioni ai partecipanti e usano con misura la funzione di strutturazione. D'altra parte gli animatori meno efficaci nei gruppi di interazione sono coloro che usano o troppo o troppo poco la stimolazione emotiva, che hanno poco interesse nei confronti dei partecipanti, che danno pochi aiuti per la comprensione e che strutturano troppo o proprio per niente.
Non si può però considerare le singole funzioni isolatamente.
Vi sono due funzioni dell'animatore che sono particolarmente importanti e che dovrebbero essere molto efficaci se combinate insieme, e cioè l'espressione della stima personale e qualificati aiuti di comprensione. Non è dunque sufficiente che l'animatore dia solo calore e simpatia. Ed è anche troppo poco se egli interpreta solamente. La combinazione di entrambe le dimensioni di comportamento è il presupposto perché i partecipanti possono apprendere bene.
Come aggiunta supplementare a questa combinazione, non è più allora così decisivo se l'animatore preferisce la stimolazione emotiva e strutturi meno o viceversa. Questa è più una questione di stile personale e di affidabilità di questo stile con un gruppo concreto.

Nell'insieme questo modello quadridimensionale relativamente semplice della conduzione di gruppo può aiutare ogni animatore a chiarire subito a se stesso come egli lavora al momento presente, per poter eventualmente accentuare di più certi aspetti.

Ultima modifica il Sabato, 27 Agosto 2016 19:18
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