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Lunedì, 02 Febbraio 2015 20:11

Padre Angelo Lancellotti, grecista e traduttore dell'Apocalisse

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Con questo mio intervento si vuole compiere il tentativo di presentare padre Angelo come studioso orientalista, percorrendo una nuova strada e sono conscio dei limiti che stringono da ogni lato il discutere su un argomento troppo grande, troppo impegnativo, perché Padre Angelo è stato uno studioso di portata internazionale ed è riduttivo comprimerlo in un intervento di 30 minuti. Ritengo comunque giusto parlare sia pur brevemente di Padre Angelo, anche perché non è pensabile che tutti noi, qui a Oppido, ignoriamo pressoché tutto dell’opera scientifica di padre Angelo, e che i risultati di tanta fatica restino quasi in una torre d’avorio a disposizione solo degli addetti ai lavori. Vorremmo che la nostra frettolosa riflessione fosse utile a portare in noi la sia pur minima conoscenza di un lavoro che ha richieto anni di sacrifici nella terra di Palestina.

Tre elementi importanti hanno concorso a formare l’uomo e lo studioso nelle persona di Padre Angelo Lancellotti:

1 – la Lucania; 2 – l’Umbria; 3 . il vicino Oriente.

Queste sono le regioni che hanno dato origine in padre Angelo al cuore lucano, al cuore francescano, al cuore di filologo orientalista. Sono questi i tria corda che lo hanno accompagnato in vita segnando il suo cammino di uomo, di sacerdote, di studioso e che in morte hanno lasciato una scia che crescerà sempre rinnovata grazie alla lode fra i posteri e alla maggiore conoscenza delle sue opere che hanno appena iniziato a dire quello che custodiscono in fatto di conoscenze nella difficile esegesi biblica.

Spenderemo poche parole sul cuore lucano e sul cuore francescano, perché il nostro compito è quello di analizzare il cuore di grecista filologo traduttore.

Il cuore lucano: il discorso è breve per necessità di cose, non per la natura dell’argomento, né d’altra ci si vuol lasciar prendere la mano dalla retorica campanilistica, né dagli affetti. Devon però essere consentite poche riflessioni. Il luogo natale per padre Angelo non è

stato mai marginale, e, non essendo Egli poeta, non è mai diventato il luogo dell’immaginario, della nostalgia forse si, di quella nostalgia fatta

di spensieratezza e di serafico riposo sul Belvedere, dove amava trascorrere molta parte del tempo quando era a Oppido in vacanza.

La fortuna, per noi, ha voluto che un bel giorno si imbattesse nel toponimo Oppido nei suoi studi ebraici traducendo un manoscritto del sec. XI, ebraico e membranaceo, scoperto tra Budapest e Il Cairo da studiosi ebraici. Questo caso fortuito gli diede la possibilità di regalarci la prima pagina di storia del suo e nostro paese natale. Ed Egli fu contento di questo, tradusse il manoscritto di Obadiah, oggi pubblicato in Antiche civiltà lucane e, nelle note che lo accompagnano, mette in risalto la vetustà del nostro dialetto. Nel convegno del marzo 2004 su Obadiah non è stato citato la traduzione di padre Angelo, forse non conosciuta o non letta. Ciò è desumibile dalla maraviglia conclamata da un relatore su Giuan, il nome di battesimo di Obadiah. Costui disse di aver appreso che il nome Giuan della Cronaca è lo stesso di oggi dalla persona che lo aveva prelevato all’aeroporto. Io ricordo ancora la conversazione avuta con Padre Angelo sul problema delle voci dialettali riportate dalla Cronaca di Obadiah e i consigli che mi diede per stendere poche note sull’argomento. Discutemmo del dialetto di Oppido e delle identità fonetiche tra la pronunzia di oggi e quella del XI sec., delle parole del dialetto oppidano translitterate in ebraico da Obadiah. Solo Lui poteva affermare con certezza questo fatto linguistico molto importante per la storia della parlata oppidana, conoscendo Egli il dialetto di Oppido e l’ebraico.

Ma il cuore lucano oppidano di padre Angelo traspariva soprattutto dalla gioia di vivere per un mese all’anno a Oppido, nel piacere che provava nell’oppidanizzarsi sempre più, (mi si passi il termine inusuale, anche se brutto) nel vivere momento per momento la vita oppidana, nell’andare di masseria in masseria della pletora di cugini, per avere con essi, okltre al contatto umano, anche il piacere di partecipare loro le proprie esperienze gerosolomitane. Questa è l’immagine di padre Angelo che per lo più è diffusa nell’immaginario collettivo oppidano. Questa sera noi vogliamo in un certo qual modo fare giustizia e presentare il vero padre Angelo: lo studioso delle civiltà orientali come pochi, il ricercatore , il filologo di lingue orientali, il fine ed esperto grecista, il sottile esegeta biblico.

Del cuore umbro francescano, della genuità della vocazione sacerdotale e del biblista dall’animo conquistato dai Salmi parlerà don Giuseppe.

Padre Angelo ha tenuto fede per tutta la sua vita alla missione sacerdotale, interpretando a pieno quello che la parola sacerdote significa. Essa deriva dal latino sacer = sacro e dalla radice indoeuropea dhe = porre, fare; perciò il sacerdote è colui che opera, che fa cose sacre nella vita vissuta, nelle opere, nel pensare, nel lasciare ai posteri qualcosa che li spinga ad una continua palingenesi. Padre Angelo è stato tutto questo.

La sacertà del sacerdote può essere protesa nell’operare nella comunità del popolo di Dio oppure nell’operare per il popolo di Dio. Padre Angelo ha operato intensamente, fino a dare la vita, per il popolo di Dio, ha operato per cercare la verità, per togliere il velo alla cripticità dei testi sacri, nati lontano da noi nel tempo, nella lingua, nei comportamenti, nello spazio.

La parola greca che indica la verità, aletheia, significa senza velo, senza nascondimento. Padre Angelo ha fatto esattamente questo: ha cercato di contribuire all’opera di scoprimento di quanto si nasconde sotto il velo costituito dalle parole ispirate da Dio agli scrittori sacri.

Vien fuori così la terza anima di padre Angelo: quella del filologo orientalista studioso di accadico, di ebraico, di greco, di latino e di traduttore-interprete di testi biblici del Nuovo e del Vecchio Testamento. Noi ci fermeremo sulla sua attività di grecista e di traduttore dal greco, cioè dei testi del Nuovo Testamento che hanno visto la luce in greco, ed in modo particolare dell’Apocalissi.

Non a caso ho usato traduttore – interprete: le due operazioni, traduzione e interpretazione indicano risultati alquanto diversi. La traduzione è il semplice trasportare da una lingua ad un’altra, a volte, senza cogliere l’intimo significato di ciò che si traduce, può essere anche una trasposizione meccanica di materiali linguistici da un termine a quo ad un termine ad quem ( trans duco = porto oltre); la interpretazione invece è un’operazione molto più complessa, mai meccanica, mai senza comprendere l’intima essenza delle parole e del pensiero dell’autore che si vuole interpretare. Interprete, dal lat. interpres, interpretis, è parola composta da inter, tra, in mezzo e la radice di pretium, prezzo, ed indica colui che si pone in mezzo tra il venditore e il compratore per stabilire il prezzo della merce. Come la maggior parte delle parole latine, essa ha un’origine contadina, indica cioè colui che si pone in mezzo fra il compratore e il venditore, e da conoscitore del prodotto, ne fissa il prezzo. La parola, come tante, nella sua storia ha assunto un significato più nobile, non più indicante una figura di primaria importanza antropologica, strettamente legata al fondamento stesso dell’economia, cioè lo scambio, ma la figura di colui che cerca equivalenze tra lingue diverse, tra culture diverse, tra diversi modi di pensare. Questa operazione implica l’esplorazione e la conoscenza di culture diverse, perché il linguaggio non è saparabile dalla cultura: il significato di una parola è pienamente comprensibile solo all’interno di un determinato sistema antropologico e l’interprete deve conoscere profondamente tutti e due i sistemi antropologici, quello da cui si traduce e quello in cui si traduce.

Essenziale è dunque conoscere non solo la civiltà e la cultura del popolo che ha prodotto l’opera che si vuole tradurre ed interpretare, ma anche del popolo nella cui lingua si vuole trasportare l’opera. Padre Angelo ha posto mano non all’interpretazione di semplici fatti storici, di scritti di storia civile o politica, ma di libri definiti sacri e che da duemila anni hanno segnato la storia dell’umanità, libri sui quali si sono misurate menti fra le più eccelse nella storia dell’Occidente e dll’Oriente, basta citare Agostino e Girolamo, Origene e Clemente Alessandrino, libri che contengono miti, credenze, filosofia, storia, religione di un piccolo popolo, diventati patrimonio universale.

Per questo è partito da lontano, ha cercato l’anima del popolo ebraico meditando sulle cose che a prima vista potebbero apparire mute, ma poi a guardarle bene, parlano a gran voce, rivelando misteri reconditi che solo un’attività intensa di filologo può rivelare. Infatti se filologia è tendenza a discernere una scrittura, attenzione alla sua esattezza, scrupolo di precisione testuale, studio intenso a comprendere l’esattezza originaria di uno scritto, a percepire errori ed inesattezze, tutto questo è entrato nel programma di studioso di Padre Angelo: la strada della filologia orientalista è stata per intero percorsa. Egli ha avuto la capacità di decifrare, di leggere, di interpretare, di riconoscere documenti inediti, renderne ragione, sentirne e fissarne la precisa forma originaria.

L’1 marzo del 1546, in una sessione del Concilio di Trento si decise di affidare a uomini docti et periti le versioni in volgare della Bibbia, poiché i padri conciliari ritennero che la lettura e l’interpretazione della stessa non è pane per tutti. Oggi, si disse, persino le donnette posseggono una Bibbia in volgare, ma cadono in gravi errori. Interpretandola a modo loro, osano tenere tra le mani testi che uomini dotti, che su di essi passano la vita, si riconoscono incapaci a comprenderli.

Padre Angelo era un homo doctus et peritus, e quando si è trovato di fronte al greco biblico, Egli si è reso conto che non bastava conoscere il greco classico per tradurre i sacri testi, ma bisognava andare alle fonti, alle quali pochi avevano attinto, bisognava andare nell’anima delle cose, al di là della scorza linguistica, al di là del velame, consapevole che per conoscere la verità bisogna togliere il velo di polvere che la copre e la nasconde.

Per questo è partito da lontano, dalle civiltà del vicino oriente con il volume Storia e preistoria con il quale ci racconta le civiltà mesopotamiche e più specificatamente con la Grammatica della lingua accadica, che “mette a disposizione degli italiani quanto oggi serve all’iniziazione”. Il Card. Pizzardo il 31 luglio 1962, subito dopo la pubblicazione della Grammatica scrisse a Padre Angelo: “ Mi congratulo con la S.V. per la sua fatica, che ritengo sarà di non poco giovamento agli studiosi. Finora mancava in lingua italiana un manuale di tal genere. Il suo gioverà non solo agli studenti, ma anche agli studiosi: non solo potrà essere adottato dagli incipienti, ma anche servire di prontuario ai semitisti provetti, come agli studiosi di glottologia semitica comparata.” Debbo, continua il Cardinale, lodare la chiarezza che distingue la Sua opera: vi si rivela un docente ordinato e perspicuo.”

Padre Angelo parte dallo studio della sintassi semitica, perché nella lingua e nella cultura semitica Egli vede il substrato del greco dell’Apocalisse, opera pur scritta in greco da Giovanni, ma in un greco dalla parvenza semitica, specialmente ebraica e accadica. Perciò prima di porsi il problema del greco dell’Apocalisse, Egli si pone il problema della lingua accadica (grammatica); dell’ebraica, (studi ebraici con la Grammatica dell’ebraico biblico) ed infine del greco, donde la Sintassi Ebraica nel greco dell’Apocalisse.

La Grammatica dell’Ebraico biblico è stata pubblicata postuma: padre Angelo non ha avuto il tempo materiale di portarla a termine.

In queste opere risulta chiaro il dovere per uno studioso interprete di testi biblici di compiere una lettura attenta secondo criteri molto rigorosi ed inoltre la necessità di accostarsi ai sacri testi con cognizioni tali da consentire al filologo di cogliere i momenti di consonanza che legavano gli uomini che nel tempo avevano agito su quei territori.

Nelle note di prefazione che Egli scrive ai suoi lavori, la sua modestia lo porta a dire che non si prefigge uno scopo puramente filologico e neppure quello strettamente esegetico. Per l’opera Sintassi ebraica nel greco dell’Apocalisse egli dice che il suo lavoro vuole essere soprattutto un tentativo inteso ad ammorbidire un po’ la ruvidezza della scorza linguistica dell’Apocalisse, che purtroppo impedisce ai più l’accesso a quelle ricchezze che sotto di esse si nascondono.

Ora quando padre Angelo parla di scorza linguistica, fotografa a pieno quella che è la situazione linguistica non solo dell’Apocalisse, ma di tutti i testi biblici del Nuovo e del Vecchio Testamento. A partire dai Settanta, la lingua usata nei testi è il greco della koiné, non il greco classico, il greco cioè della comunità dei parlanti greco di Alessandria, ricco di semitismi e di costruzioni sintattiche inusuali nel greco letterario contemporaneo.

Le costruzioni inusuali dovevano appartenere alla lingua d’uso quotidiano, che sembra aver esercitato il suo influsso sulla particolare forma della koiné. La traduzione dei Settanta è stata la prima traduzione in greco di un cospicuo testo scritto in lingua orientale, un’impresa culturale senza precedenti e un’occasione unica di confronto e comunicazione fra culture diverse.

I testi biblici tradotti in italiano sottendono il testo ebraico o aramaico fino ai libri dei Maccabei e la Sapienza, questi due scritti direttamente in greco. Il Nuovo Testamento ha come lingua madre il greco della koiné. L’edizione greca di Matteo, ha moduli sintattici riconducibili alla koiné e nel complesso lo stile è sobrio e solenne, ricorrono in esso espressioni e termini di chiaro stampo semitico di cui l’autore non crede necessario dar spiegazione ai suoi lettori ( Lancellotti, Matteo, p. 16,); la lingua dell’Apolcalisse invece è unica, diversa da ogni altra: è ricca di solecismi e di infrazioni al codice sintattico e morfologico della koiné. L’Apocalisse è stata scritta ed è entrata nel canone tardi rispetto alle altre opere neotestamentarie, prende nome dalla prima parola apokalypsis, rivelazione, si presenta come una rivelazione delle cose che stanno per accadere. In essa si ritrovano temi e caratteri della letteratura apocalittica, molto diffusa in ambienti giudaici: le visioni, il simbolismo, gesti e atteggiamenti convenzionali. Quella che è nuova è la visione cristiana: Dio è il solo autore della salvezza, ma Cristo ne è il mediatore e la Chiesa ne è partecipe.

Dal punto di vista linguistico.strutturale “è un’opera molto scorretta

( si può dire che il periodo non esiste), e dal punto di vista formale appare indegna dell’autore del quarto Evangelio. Il linguaggio è oscurissimo per la densità di memorie bibliche e la tenacia del simbolismo”

Per la caratteristiche linguistico-strutturali del libro Padre Angelo si è trovato di fronte ad un testo che presenta enormi problemi linguistici di esegesi e di interpretazione, né ha potuto per questo testo risalire al testo ebraico: Egli si è comportato come d’altra parte si comportò Girolamo, il padre della traduzione biblica neotestamentaria. Tutti e due, Girolamo e padre Angelo, dall’Italia sono migrati in Palestina per avere concretezza nel restaurare i testi sacri, avendo avvertito la necessità di risalire alle fonti ebraiche ed oltre, ed in più Padre Angelo ha dovuto immergersi nello studio di un greco non certo usuale e corretto.

Padre Angelo si è trovato nella situazione di rendere comprensibile il testo della Bibbia a quella categoria di persone che non conoscono il greco e il latino, e dare una traduzione moderna tenendo presente i tanti studi, le tante scoperte che giornalmente hanno aperto ed aprono tuttavia nuovi orizzonti alla comprensione dei testi, sui quali non è stata detta e forse non sarà detta la parola fine. Il greco biblico del Vecchio e del Nuovo Testamento è una lingua che presenta grandi differenze dal greco classico nel lessico, nelle strutture morfologiche e nell’organizzazione sintattica dei periodi. Una parola greca come parthénos, parola dall’ambivalenza semantica, che indica genericamente giovane donna, ma soprattutto la vergine, in qualsiasi contesto compaia, non è mai traducibile del tutto in italiano, a maggior ragione quando traduce una parola aramaica quale almah, giovane donna: essa vale sia vergine che giovane donna: quale dei due significati è quello che traduce meglio il testo che si ha davanti? In questo caso deve intervenire la profonda conoscenza dei popoli ai quali i testi si riferiscono, conoscenza che si acquisisce sul campo direttamente e non sui libri. Siamo tentati di dire che in questo caso occorre il sistema autoptico di Polibio. Padre Angelo ha dovuto affrontare tutte queste difficoltà, comprendere tutte le varie implicazioni che una parola sottende in due civiltà e culture diverse, comprendere l’ambiente, l’occasione e il contesto nel quale la parola è usata, interpretare e trasportare il tutto in una terza lingua: l’italiano. Sono queste alcune delle difficoltà di una traduzione interlinguistica, quale appunto è stata quella di Padre Angelo.

Sappiamo che tradurre è una sintesi finale di molteplici operazioni che richiedono la capacità di analizzare, comprendere ed interpretare il testo che si vuol trasportare in altra lingua. Si parte da un termine a quo e si arriva ad un termine ad quem, e più i due termini, le due lingue, le due culture sono lontane nel tempo e nello spazio, più le operazioni sono difficili. Analisi, comprensione profonda delle parole, interpretazione sono tre operazioni correlate fra di loro che terminano nella ricodificazione del testo nella lingua di arrivo.

Parlando dell’Apocalisse, Padre Angelo si è trovato pertanto di fronte ad un testo “assolutamente unico”, tanto è pieno di solecismi e di stranezze grammaticali e sintattiche. Il greco dell’Apocalisse paragonato a quello dei due libri di Luca e delle Lettere di Paolo, sembra scritto da un illetterato che fa a meno delle leggi della grammatica.

Il titolo dell’opera che studia la forma linguistica dell’Apocalisse Sintassi ebraica nel greco dell’Apocalisse sembra volerci dire che l’autore, il profeta dell’Apocalisse ha usato il mezzo espressivo greco, ma pensava in ebraico, e l’ordo verborum, la concatenazione delle parole, pur esse greche, è ebraico. Viene fuori qualcosa di complesso e di non facile intendimento: il traduttore-interprete deve possedere intimamente due culture, due anime di due popoli diversi per riuscire a dire quello che l’autore originario ha voluto trasmettere. Ecco perché il Nostro, prima di aprire lo scrigno, ha dovuto penetrare due codici: quello ebraico e quello grecoellenistico, il greco parlato della koiné. Così ci spieghiamo un titolo: Sintassi ebraica nel greco dell’Apocalisse.

Lo studio dell’ebraico gli permette di scoprire le notevoli differenze tra l’originale biblico e la versione greca dei Settanta per l’Antico Testamento; tra l’originale grecoellenistico e la versione latina della Vulgata per i testi del Nuovo Testamento, per arrivare cosi alla traduzione italiana, sempre limpida, scorrevole, filologicamente esatta e immediatamente fruibile. Diamo un esempio. Mt, 26,73: greco: e lalià sou delon se poiei; lat.: nam loquela tua manifestum te facit; padre Angelo traduce in un italiano molto immediato: il tuo dialetto ti tradisce. Non vi è chi non intende che a tradire Pietro fu il dialetto particolare del villaggio d’origine, diverso certamente da quello degli altri villaggi circostanti ed in modo particolare da quello di Gerusalemme. Pensiamo alle differenze tra il dialetto di Oppido e quelli di paesi nostri confinanti!

Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che i testi giovannei siano delle traduzioni dall’ebraico, cioè che scritti in ebraico, siano stati in un secondo tempo tradotti in greco: si spiegherebbero così i molti semitismi ed ebraismi. Padre Angelo non è di questo parere e dice: “ nei testi giovannei si deve parlare piuttosto di greco fortemente semitizzante in cui possono esserci delle fonti semitiche, che nell’Apocalisse sono certamente ebraiche.” (p. 20). Dalla ricerca delle fonti semitiche scaturisce il lavoro meticoloso del filologo grecista, che parte dalla collazione non solo dei testi, ma soprattutto delle parole viste nel contesto ebraico e greco ellenistico, della sintassi classica greca quale si era evoluta nella koiné con quella che via via si presentava nell’esegesi del testo dell’Apocalisse e del greco dell’Apocalisse con quello degli altri testi neotestamentari.

Non è certo nostro compito voler studiare filologicamente il testo dell’Apocalisse, lo ha fatto con rigore, competenza e maestria padre Angelo, competenza e maestria che a noi per ovvi motivi d’altra parte manca. Penetrare profondamente i meccanismi di lingue di cultura quali l’accadico, l’aramaico, l’ebraico, il greco classico ed ellenistico della koiné, il latino, non è semplice. Richiede passione, dedizione, studio, ricerca sul campo. Una lingua che noi diciamo morta, è tale solo perché non la si parla, ma essa è viva, vive nell’aria quasi, vive nelle pietre calpestate da coloro che la parlavano, vive nei reperti lapidei e papiracei, vive nei gesti, vive nei modi di comportamento dei discendenti. Tutto questo padre Angelo è andato a ricercare in Palestina, terra nella quale si sono succedute l’una dopo l’altra lingue diverse, fino ad arrivare al greco ellenistico, mezzo espressivo dei testi neotestamentari, al latino, lingua dei dominatori ai tempi di Gesù. Egli ha voluto posare i piedi sulle pietre sulle quali li posò Cristo, e quelle pietre gli hanno parlato, gli hanno rivelato conoscenze che non si apprendono dai libri, conoscenze fatte di cose concrete, che solo un contatto diretto con gli ambienti ed i luoghi che vedero lo svolgersi dei fatti possono dare. Padre Angelo ha cercato di carpire i segreti della vita reale di un popolo antico che ha segnato la storia dell’umanità e dei popoli non solo occidentali. Ha voluto conoscere le pietre, gli oggetti d’uso quotidiano, i rapporti tra il moderno e l’antico, le grotte, il deserto, in una parola tutto ciò che ha determinato quei testi . Ed Egli ha capito che gli Ebrei pensavano in ebraico, ma parlavano o scrivevano in greco, erano naturalmente portati a storpiare il greco, a fare a meno della sintassi, della grammatica greca, a semitizzare il loro scritto. Per cui si è trovato di fronte ad espressioni come e phonè légon ( Ap. 4, 1) che tradotto da Girolamo nella Vulgata et vox dicens. Mentre in latino il participio presente è lo stesso per il maschile e il femminile, in greco legon è maschile. Lo scrittore dell’Apocalisse non lo ha concordato con phoné che è femminile. Nell’Apocalisse legon, dicente, è sempre usato come indeclinabile. Padre Angelo traduce rendendo esplicito il participio greco: “la voce che prima avevo udita parlarmi a somiglianza di tromba, disse..”

Come abbiamo notato, il problema non si pone in latino, perché legens è sia maschile che femminile, si pone in greco, ove legon è part pres. m. Un orecchio fine come quello di padre Angelo, abituato alla concordanza, avrebbe voluto trovarsi davanti a un legousa, che è il fem. del participio.pres. Questo è solo un esempio minimo che si può portare, ma molto spesso del sostantivo è usato solo il nominativo, come se fosse indeclinabile, la coordinazione invece della subordinazione, non è rispettata la consecutio temporum, e via dicendo. Pertanto la traduzione dell’Apocalisse ha presentato enormi problemi di esgesi grammaticale, non solo nella interpretazione esatta del lessico, molto spesso costituito da termini solamente rivestiti di greco, ma dal recondito significato semitico, ma anche dal punto di vista sintattico, tanto da far dire al Nostro:

“ Ciò che sconcerta di più nell’Apocalisse è l’uso dei tempi. Trascurando i casi di confusione fra il perfetto e l’aoristo, la cui distinzione netta va gradatamente sfumandosi nello sviluppo ulteriore della lingua greca, troviamo nell’Appocalisse passi in cui il futuro è mescolato illogicamente al presente e all’aoristo, il presente insieme al passato o futuro; e inoltre l’aoristo con il presente o il futuro; e ciò in una maniera così intricata, che a volte rimane quasi impossibile l’esatta collocazione nel tempo dei fatti narrati. Esempi di tale confusione se ne trovano un po’ dappertutto.”

Ancora di questo testo padre Angelo dice.” Giovanni aveva una insufficiente conoscenza del greco, i suoi barbarismi sono dei veri semitismi, formula il suo pensiero in categorie semitiche che solo mentalmente, e non sempre in modo felice, trasporta in greco”

Non è compito nostro cercare di spiegare il perché di questa anarchia grammaticale che caratterizza il greco dell’Apocalisse, d’altra parte lo ha fatto da par suo padre Angelo; noi abbiamo semplicemente voluto mettere in evidenza l’improbo lavoro che padre Angelo ha dovuto affrontare prima di mettere mano alla sua interpretazione e alla sua traduzione. Esso è stato un lavoro di esegesi, di emendatio del testo al solo scopo della traduzione e della interpretazione di un libro unico nel suo genere, di un libro sconcertante ed insieme affascinante.



- Questo contributo riproduce, con la semplice aggiunta delle scarne note, il testo della relazione tenuta al convegno su Padre Angelo celebratosi a Oppido Lucano il 2 gennaio 2005. Esso mantiene anche la forma discorsiva

Il Monte Belvedere, di 678 m.l.m., si trova a 2 Km dall’abitato di Oppido Lucano ed è sede di un noto Santuario diocesano dedicato alla Vergine di Belvedere di Oppido Lucano

Giovanni Obadiah, il proselito da Oppido Lucano, era il figlio secondogenito di Droco il Normanno, signore del castello di Oppido. Dopo la conversione alla religione ebraica emigrò in oriente dove coltivò la musica diventando un musicista di fama. Ha lasciato una Cronaca della sua vita scritta in ebraico. Su di lui si son tenuti due importanti convegni a Oppido nel 1970 e nel 2004.

AA.VV., Antiche civiltà lucane, a cura di P. Borraro contengono gli Atti del Convegno di studi di Archeologia, Storia dell’arte e del Folklore tenutosi a Oppido dal 5 all’8 aprile 1970. Il volume apre uno spaccato illuminante sulla storia di Oppido Lucano ed ha fatto conoscere al grande pubblico la esistenza di Obadiah.

Si veda al riguardo: F.S.Lioi, Oppido lucano fra storia e preistoria, CRA di Oppido, pp. 69 ss.

S. Agostino nel De doctrina Christiana dice che per interpretare secondo verità i signa, le parole, attraverso cui è espresso il contenuto, le res, delle Sacre Scritture è necessario conoscere le lingue sacre: l’ebraico e il greco.

L. MORALDI, La Bibbia oggi, Fratelli Fabbri ed., Milano 1981.

Padre Angelo non ha scritto solo la grammatica, ha tradotto testi sumerici antichi, quali il poema Ghilmamesh, leggendario re di Uruk. La Tav. XI che narra il diluvio babilonese, per la sua problematica ed alcuni elementi letterari, ma soprattutto nel suo racconto del diluvio, costituisce il più sorprendente parallelo con la Bibbia di tutte le letterature antiche. La traduzione è riportata nel volume di padre Angelo Storia e preistoria edito nel 1967 ad Assisi.

G. RINALDI, Le letterature del Vicino Oriente, Sansoni Accademia, Firenze.

Il Card.Pizzardo nel 1962 era Prefetto della Sacra Congregatio De seminariis et studiorum universitatibus; scrive a padre Angelo per ringraziarlo dell’omaggio della Grammatica.

LANCELLOTTI, A., Grammatica dell’ebraico biblico, a cura di A. Niccacci ofm. Edizioni Porziuncola, Assisi 1996.

SETTANTA, è detta così la prima traduzione in greco del Vecchio Testamento, fatta, secondo la leggenda, da 72 saggi ebrei in 72 giorni ad Alessandria d’Egitto durante il regno di Tolomeo II Filadelfo. Il greco dei 70 è influenzato dall’ebraico, di cui conserva qualche termine intraducibile in greco, o costrutto e locuzione idiomatici resi poco grecamente, pertanto abbondano gli ebraismi.

Koinè dialektos, lingua comune, è la lingua dell’uso parlato su base attica, creatasi per necessità di una lingua di scambio, che con il concorso delle cause politiche e sociali produsse la sparizione delle antiche parlate locali fino alla ellenizzazione dell’oriente. La koiné del Nuovo Testamento è molto vicina alla lingua parlata nelle comunità ellenizzate del Mediterraneo orientale.

F. MONTANARI, Letteratura greca, Bari 1998, p. 692.

A. LANCELLOTTI, Matteo, Introduzione, p. 16. Edizioni Paoline, Alba 1986.

Nella letteratura ebraica esisteva un vero e proprio genere apoplcalittico, che illustrava rivelazioni avute dall’autore per mezzo di visioni, ricche di simboli e allegorie a sfondo escatologico. Oltre all’Apocalisse di Giovanni, opera entrata nel Canone, un’Apocalisse di Pietro e il Pastore di Erma, opere annoverate fra gli scritti apocrifi. Nel Pastore di Erma si susseguono cinque visioni. Le prime quattro hanno per protagonista una matrona, simbolo della Chiesa; la quinta l’angiolo della penitenza sotto l’aspetto di un pastore, che ammaestra l’autore, un liberto romano di nome Erma. L’ammaestramento è sulla penitenza, tema scottante nel primo secolo del Cristianesimo, in quanto non tutti concordavano sul comportamento che si doveva tenere se, dopo il battesimo, si fosse caduti nel peccato. Anche in quest’opera la lingua, il greco, è ricco di ebraismi e di latinismi, lo stile è di gusto popolare.

La letteratura apocalittica comprende una categoria di testi, e di credenze a essi associate, diffusa durante il periodo del Secondo Tempio (periodo della storia ebraica che va dalla ricostruzione del Tempio nel 516 a.C. alla sua distruzione per opera dei Romani durante la rivolota giudaica del 66-70 d.C.) e relativa a verità nascoste, spesso riguardanti il destino futuro del mondo, rivelate a uomini santi tramite visioni o ascensioni al cielo.

F. M. PONTANI, Letteratura Greca, vol. III, D’Anna, Firenze 1956, p. 238.

L’originale ebraico ha il termine almah, che per sé indica “giovane donna, ragazza”; Matteo cita dalla versione greca dei LXX che ha appunto parthénos, “vergine”.( Nota di padre Angelo a Matteo, 1,23.)

L.E. ROSSI - R. NICOLAI, Storia e testi della letteratura greca: l’età imperiale romana,vol.III, tomo B, Firenze 2003, p. 71

Padre Angelo ( Francesco) Lancellotti, nasce a Oppido Lucano l’1 – 1- 1927, muore a Roma il 19 – 3 – 1984. Formatosi culturalmente ad Assisi e a Roma, è stato professore ordinario di lingue semitiche presso lo Studium Franciscanum di Gerusalemme, ove ha trtascorso molti anni della sua vita, facendo ricerche e studi sul campo e scoprendo nel deserto iscrizioni fino ad allora sconosciute. La sua attività di studioso di lingue antiche del Vicino Oriente e di biblista insigne si è concretizzata attraverso pubblicazioni di carattere scientifico e di carattere divulgativo. Ricordiamo in modo particolare. Grammatica della lingua accadica, Gerusalemme, 1962; Sintassi ebraica nel greco dell’Apocalissi, Assisi 1964; Grammatica dell’ebraico biblico, Assisi 1991 (postuma); Il Vangelo oggi, in cinque volumi, tradotta in portoghese per il Brasile, ( Il Vangelo e la critica moderna, Roma 1971; Il Vangelo kerygmatico. Secondo Marco Assisi 1971; Il Vangelo degli Ebrei. Secondo Matteo, Roma 1969; Il Vangelo dei Gentili, Secondo Luca, Assisi 1974; Il Vangelo dello Spirito. Secondo Giovanni Assisi 1973 ; Storia e preistoria nella concezione biblica e orientale, Assisi 1967; La Tradizione profetico-apocalittica dell’A.T. Brescia 1967; le traduzioni, Il poema di Gilgamesh¸ L’Apocalisse; Il Vangelo di Matteo; I Salmi .

Ultima modifica il Sabato, 27 Agosto 2016 20:19
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