Sabato, 31 Gennaio 2015 11:09

Il senso religioso di Giacomo Leopardi

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L'esigenza di una religione che persuada. Appunti per una riflessione

• «Tutto è o può essere contento di se stesso, eccetto l'uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell'altre cose» (Zibaldone, n. 29). Sono parole che Giacomo Leopardi scrive a vent'anni. E precisa poco dopo che noi uomini siamo «miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra... Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti»; «una delle grandi prove dell'immortalità dell'anima è la infelicità dell'uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici» (Ib., n. 40).

Il giovane poeta fa qui sua l'antropologia cristiana: la natura nostra è esigenza di verità e di compimento, cioè di felicità. La ragione intuisce che la risposta adeguata a quest'inestirpabile sete, esiste per ciò stesso che questa esigenza esiste. Scrive sant'Agostino all'inizio delle Confessioni «Ci hai fatti per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te».

Il nesso col grande santo è esplicito in questo passo del 7/12/1820: «Tutti gli uomini uniscono costantemente all'idea della felicità l'idea del riposo, che non è altro fuorché quella pace profonda... che sant'Agostino chiama per eccellenza, la tranquillità dell'Ordine».

• Se la «geometrica» ragione illuminista, volendo essa stessa dettare la misura del reale, quindi del possibile e dell'impossibile, afferma dogmaticamente che non può accadere alcuna rivelazione, la ragione aperta di Leopardi— al suo culmine— riconosce la miseria dell'umana natura e si spalanca nella attesa di un compimento che può essere solo donato; ovvero si apre all'ipotesi della rivelazione (e anche il marxista Cesare Luporini riconosce: «La categoria della ''possibilità'' è sempre all'attenzione di Leopardi»): «la perfezione della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci» (Ib., n. 407); dunque l'uomo corrotto non poteva essere perfezionato né felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione» (n. 410): «I'esperienza conferma che l'uomo qual è ridotto non può essere felice sodamente se non in uno stato (ma veramente) religioso» (n. 411); ciò che dà consistenza alle cose è solo la «persuasione di un'altra vita. Ma questa ci deve persuadere; dunque bisogna che la religione ci persuada».

IL PESO Dl UN'EDUCAZIONE RELIGIOSA SBAGLIATA

• Sono riflessioni appuntate nei giorni che precedono il Natale 1820.

Leopardi, ventiduenne, vorrebbe pervenire a un'adesione convinta al cristianesimo, ma la concreta esperienza familiare lo sta conducendo nella direzione opposta.

Pochi giomi prima il 25 novembre, ha tratteggiato un immagine terrificante della madre Adelaide: una donna che invidia sinceramente quei genitori che perdono i figlioletti in tenera età, dato che questi volano subito in paradiso, una che per questo gioisce quando perde i propri figli; una che considera la bellezza come una disgrazia, è grata a Dio per averle dato «figli brutti e deformi», e pretende che rinunzino alla vitalità propria della giovinezza per evitare così i pericoli dell'anima. E' questa la «riduzione» del cristianesimo che Giacomo ha respirato in famiglia: una religione del dualismo anima-corpo, dello scrupolo moralistico (attorno ai quattordici anni era giunto a temere «di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni », come attesta il padre Monaldo), della fuga spiritualistica lontano dai pericoli della carne, del bigottismo astratto.

• Egli prende le distanze da una religione che sente ostile alle ragioni della vita, dato che propone di «fuggir le cose per non peccare. Altrettanto varrebbe il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa, come una cosa dannosa» (13/9/1821).

Poiché persiste l'urgente della «domanda», ne viene d'ora in poi una esperienza sofferta, dilacerante, che permarrà fin sul letto di morte: egli —come dice Carlo Sini—resterà «in bilico» tra finito e infinito.

IN BILICO TRA FINITO E INFINITO

• E un'esperienza vertiginosa nella quale lo accompagna la lezione di Blaise Pascal. Per lui Leopardi ha una stima immensa (cf Zibaldone. nn. 1176-77, 1348-49, 3245); i Pensieri del filosoto francese  rifluiscono nei Pensieri del Recanatese (non casuale la coincidenza dei titoli).

Eloquente il LXVIII nel quale si dà voce alla contraddizione irrisolvibile che l'uomo strutturalmente è. Per Pascal (Pensieri, n. 477). La noia è «il segno e l'impronta affatto vuota che l'uomo cerca invano di colmare con  tutto quanto lo circonda... Quell'abisso infiniti può essere colmato soltanto da un oggetto infinito e immutabile: ossia da Dio stesso».

Anche Leopardi, che ha ormai perso la fede, riconoce che neppure il possesso di tutta la realtà materiale potrebbe colmare il suo cuore. C'è una radicale sproporzione tra la sua «capacità» infinita e le risposte sempre parziali e precarie. L'uomo è un «punto» al quale nemmeno I'intero universo basterebbe. Allora tutto è nulla, vuoto, noia; ma proprio in questa consapevolezza «ragionevole e infelice» (così Pascal chiama chi cerca Dio e non lo trova: Pensieri, n. 178) consiste la dignità nobile e grande dell'uomo.

Il poeta, riconoscendo l'evidenza di questo inesplicabile ma insopprimibile desiderio di un «oltre»—dice M. Pazzaglia—supera la concezione materialistica da cui era partito.

• Negli anni ' 19-'21 Leopardi torna a più riprese su un progetto di Inni cristiani  mai versificati, di cui ci restano solo dei rapidi schizzi: solo di uno, I'lnno al  Redentore, abbiamo una più piccola elaborazione. Quello che riportiamo è il terzo e ultimo abbozzo. Vi implodono i fondamentali temi dei Canti, e su tutti la «speranza». La vita è un viaggio “errante”;, (come poi nel Canto notturno ); persa la memoria del Signore, le piccole speranze sono idoli che illudono e deludono. Ma verrà un tempo in cui il poeta, giunto alI'ultima soglia, tornerà a ricorrere a Colui che ci ha creati e redenti dalla morte: «Abbi allora misericordia». Tutto il testo converge verso questa struggente preghiera, «profezia di un abbandono a Dio che forse si sarebbe fatto presente allora» (Divo Barsotti). Ma l'lnno rimane allo stato di abbozzo. Al poeta è mancato l'ancoraggio in una compagnia che rendesse presente Crito nell'hic et nunc. Mai il Redentore comparirà nei Canti.

L'INVOCAZIONE ALLA BELLEZZA,

• C è però una lirica che «possiamo sentire come una profezia inconsapevole di Cristo 1800 anni dopo di lui» (L. Giussani) è Alla sua donna del 1823, un «inno”;, (v ultimo verso) alla Bellezza infinita che sta in cielo.

Sempre la grande poesia di Leopardi nasce dalla contemplazione della bellezza: il cielo stellato e la luna; la natura come «segno» che sollecita e muove verso Altro (es.: «Bel giorno. sereno. suono delle campane vicine quivi. e al primo tocco mia commozione verso il Creatore».

Ma nulla come la belllezza di una fanciulla (Silvia, Nerina…) è «capace di elevarci l'anima. di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità» (30/6/'28).

In Alla sua donna la dinamica è inversa: non una creatura terrena sublimata, ma la Bellezza ideale, «celeste e ineffabile»—commenta il poeta—invocata perché s'incarni.

• 1a strofa: è quello umano, un amore di lontano —«lunge»—per un volto nascosto che irrompe nel sonno come immagine divina—«ombra diva»—o che manda segnali attraverso lo splendore della natura. Forse vi è stato o vi sarà un tempo reso beato dalla sua presenza, ma ora lei vola eterea.

• 2' strofa:  la grande speranza è che il miracolo della Bellezza si offre, viva e incontrabile, alla contemplazione stupita. Tale supremo desiderio. se appare destinato a non realizzarsi lungo l'esistenza, potrebbe invece compiersi nell'attimo supremo, quando lo spirito «ignudo e solo» perverrà alla misteriosa soglia della morte (torna in mente l'lnno Al Redentore: «Abbi allora misericordia»). Fin dalla prima giovinezza questo era stato il pensiero dominante: imbattersi in Lei, ideale-reale, «viatrice» accanto all'homo viator. Allora l'«arido suolo» si sarebbe mutato in giardino. Ma in terra non vi è nulla di simile.

• La 3a strofa è tutta ottativa: se qualcuno potesse amare lei, «vera» e ideale insieme, per lui diventerebbe «questo viver beato». In compagnia di Lei, beatrice «la mortal vita saria / simile a quella che nel cielo indìa». questo verso è preso da Petrarca, ma l ultima parola—«indìa»—è un neologismo coniato da Dante (Paradiso IV, 28): I'incarnarsi della beatificante Bellezza genererebbe l'«indiarsi» dell'uomo.

• In chiusura della 4a strofa torna l'indicativo: alI'uomo privato della forma vera di Lei, basta conservarne l'immagine: un pensiero che mantiene vigile l'attesa.

• Nell'ultima strofa l'«ignoto amante», dalla miseria dell'al di qua eleva il suo «inno» alla donna celeste: Dio (assicura il Fubini: «che con l'espressione eterno senno si alluda a Dio è confermato dalle varianti: I'autor degli astri, I'eterno Signore»—con la maiuscola) non vuole che la Bellezza del Logos—I'eterna idea—si faccia carne, assumendo forma umana, aperta al supremo dolore della morte. Provocatoria e quasi blasfema (ma la bestemmia—afferma Divo Barsotti— è qui una forma estrema e urlata di preghiera) pare questa conclusione: quasi un urgere Dio, tentarlo, indurlo a epitanizzarsi ancora assumendo una «sensibil forma». Perché di questo ha bisogno il cuore dell'uomo: non di una dottrina ma di una Persona che si vede, si tocca, si sente (cf 1 Gv 1,1- 4).

LE INSOPPRIMIBILI DOMANDE DELLUOMO

• Dopo questo Canto del '23 e fino al '28, vi è un lustro di silenzio poetico che si apre con le Operette morali.

Leopardi ideologicamente ha ormai optato per l'Illuminismo radicale e ateo, ma nel cuore permangono le inestirpabili domande. Si chiede il protagonista del Dialogo della Natura e di un Islandese (1824): «A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo?».

Nei versi-prosa dell'EpistolaAI Conte Carlo Pepoli (1826) il poeta chiede all'amico: «di che speranze il core / vai sostentando?». L'uomo si riconosce pieno di una «brama insanabile che invano / felicità richiede». Egli può tentare di occultarla con le «mille inefficaci / medicine» disponibili nel grande mercato del divertissement: giochi, balli, cibi raffinati, rumore, viaggi, arti marziali... Ma tutto è vano: «nel petto / nell'imo petto, grave, salda, immota / come colonna adamantina siede / noia immortale». L'uomo permane «mendico». consapevole della propria natura tutta mancante, tutta protesa al rinvenimento di un senso ultimo (cf vv. 140-148).

• In quello stesso marzo 1826 Leopardi annota nello Zibaldone: «L'uomo tende ad un fine principale ed unico... Questo fine è dunque il suo sommo bene. E questo sommo bene che è'? Certamente la felicità» (n. 4168). Ma paradossalmente, benché il sommo bene e la felicità «per natura delI'uomo sieno il necessario fine dell'uomo... questo fine non esiste in natura» (n. 4169).

Il leopardiano «senso religioso» (da non confondere con la religione positiva) coincide col radicale impegno dell'io con la vita, che si documenta nelle insopprimibili domande di significato totale per l’esistenza, e che ha nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1929-30) “la sua parola ultima e definitiva” (Fubini)

• Nel “giorno” illuminista la ragione-misura tutto pretende definire; nella “notte” romantica la ragione è finestra aperta sulla vastità infinita. Alla luna, che sembra dominare gli spazi siderali e terrestri, l’homo viator pone le domande dall’orizzonte anch’esso senza fine. la luna, nella 1^e 4^strofa è il “Tu dialogico” (Anna dolfi): la figura “ponte-fice” e mediatrice tra penombra terrena e sole del significato ultimo, in ciò omologa alle figure femminili che riverberano la Bellezza.

• La 1^ strofa  del Canto descrive il parallelismo —«somiglia»—tra il viaggio della luna e quello del pastore: « Sorgi-vai-contemplando-ti posi »; «sorge-move-vede-si riposa». Ma quello della luna è un «corso immortale», mentre la vita umana è una «breve» parabola: di qui le domande sul destino e sul valore dell'esistenza.

• Al romeo di Petrarca (“il vecchierel canuto e bianco» che alla fine del viaggio contempla nel lino della Veronica «Colui / ch’ancor lassù nel ciel vedere spera») fa eco nella 2^ strofa la corsa errante del leopardiano «vecchierel bianco" che «infin ch'arriva» alla meta non trova «il» fine. ma precipita nell`«abisso orrido. immenso": da sempre la vita è travaglio ma all'ultima speranza medievale, cinque secoli dopo fa riscontro una tragica diperazione che tutto annichilisce.

• La vita è una pena (3^strofa): possiamo solo consolarci l'un l'altro.

• Ma certo (4^ ^strofa) la luna comprende «il perché delle cose». Commenta il Pazzaglia: « riafffiora il bisogno di credere che vi sia qualcuno che conosca il perché della vita, e, implicitamente, che esista questo perché», che abiti degli spazi sterminati, una presenza confortatrice (Dio)». L'uomo può solo ragionare, cioè chiedere “A che tante facelle? … Ed io che sono ?”.

• Come la luna anche la greggia (5^ strofa) può riposare “queta e contenta”, I'uomo no: appena si siede lo punge la consapevolezza inquietante della sua condizione. Impossibile è il riposo.

• L'ultima breve strofa attesta come vi sia nella terra una creatura a cui la terra non basta: come Icaro, I'uomo è pieno di “de-siderio”, sete di stelle (dantescamente “speranza de l’altezza”). Il triplice  “forse” mantiene aperto uno spiraglio di luce entro una prigione di sconsolata amarezza.

• Le grandi domande riesplodono in Sopra il ritratto di bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima (circa 1835): colei che fu un tempo ammirata, ora è ridotta a scheletro e polvere. Parafrasiamo parte della 2a strofa: oggi la bellezza grandeggia, simile a raggio splendente che Dio fa cadere su questa terra deserta, così da darci il segno e la sicura speranza di un destino di felicità più che umana nei mondi del divino splendore; domani quell'immagine angelica muore e si decompone, e con lei si disperde anche quella stupita conoscenza del mondo divino che la sua bellezza aveva veicolato. ”Misterio eterno/ dell’esser nostro”

Se l'uomo—e siamo alla 4^ strofa—è solo materia , donde proviene quel quid che tutto lo pervade e lo anima, sollevandolo verso i cieli del sommo bene? E^’ una domanda su cui l'ideologia leopardiana”non ha potuto aver ragione”:  persiste “nonostante il credo materialista” (Fubini).

• Nell'ultimo decennio della sua vita, accanto a documenti decisamente anticristiani (il più noto è La ginestra), si potrebbero rinvenire cenni intermittenti di riavvicinamento del poeta al cristianesimo (il 26/5/'28 scrive di aver “ricevuto i SS. Sacramenti”; il 27/5/'37—pochi giorni prima di morire—prega i familiari di “raccomandarlo a Dio” perché una “buona morte” ponga fine ai suoi patimenti fisici. E il 14 giugno fu il Ranieri o Leopardi stesso a chiedere quel prete, che arrivò quando Giacomo era appena spirato?). Ma tutta la sua opera è un grande monumento a quelle domande che costituiscono il “senso religioso” di ogni uomo consapevole di sé.

Bibliografia

AA. Vv, Leopardi: I'infinito e noi, volume edito da Il Sabato Milano 1987 (con interventi di L. DONINELLI, G, BARBERI SQUAROTTI, L. PlCCIONI, L. GIUSSANI, L. GIORELLO, E. SEVERINO, M. Luzl, F. ULIVI).Antologia

•" PENSIERI ": LXVIIILa noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'anima e il desíderío nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.'

• PER L'INNO AL CREATORE

Per l'inno al Creatore o al Redentore. Ora vo da speme a speme tutto giorno errando e mi scordo di te, benché sempre deluso ecc. Tempo verrà ch'io non restandomi altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speranza nella morte, e allora ricorrerò a te ecc. abbi allora misericordia, ...' Giacomo Leopardi, Tutte le opere (a cura di Walter Binni), Sansoni, Firenze 1969

Ultima modifica il Sabato, 27 Agosto 2016 20:17
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