Venerdì, 30 Gennaio 2015 14:56

Clandestini sulla terra?

Scritto da

Il cristiano di fronte agli "stranieri"

ll rapporto con lo straniero è tema di grande attualità: presente nel dibattito politico, spesso drammatizzato dalla cronaca mediatica, è ora al centro di vivaci discussioni dopo la proposta di introdurre il reato di "immigrazione clandestina". Naturalmente anche le comunità cristiane si sentono provocate a discernere una situazione non semplice, che facilmente tende a polarizzare il giudizio e il comportamento nelle figure estreme dell'accettazione acritica e della chiusura. Il contributo che qui pubblichiamo, offre significativi punti di riferimento per la riflessione sul tema: padre Pietro Bovati sj, docente di Esegesi dell'Antico Testamento presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, e ora segretario della Pontificia Commissione Biblica interroga l'esperienza di Israele, cercando nella Bibbia quegli elementi che possano aiutarci a «passare dalla paura alla sapienza».

L'articolo è stato pubblicato sulla Rivista del Clero Italiano. Rimaniamo a disposizione degli aventi diritto per l'immediata rimozione dal sito

Se in queste pagine ci dedichiamo a riflettere sullo straniero, è perché la realtà evocata da questo concetto costituisce ai nostri giorni un serio problema: le ondate migratorie talvolta pressanti ed estremamente bisognose suscitano sentimenti opposti di paura e di compassione; e l'uomo di buona volontà, anche in veste di legislatore, non sa dare una soddisfacente risposta a questa 'provocazione'. Quando lo straniero assume l'aspetto di una collettività numerosa e compatta, esso viene percepito come una presenza minacciosa, paragonata all'orda barbarica, che invade, distruggendo il patrimonio altrui, abbattendo equilibri già precari; quando invece si manifesta nella figura individuale o in entità minime, appare allora il suo aspetto di persona minacciata, potenziale oggetto di sopruso o già vittima di ingiustizie economiche e giuridiche. I sentimenti opposti di diffidenza e di benevolenza, che talvolta si alternano nelle stesse persone, vanno di pari passo con provvedimenti giuridici che oscillano da discipline repressive a dispositivi di fattivo rispetto.

Per passare dalla paura alla sapienza è indispensabile far ricorso alla Bibbia; per i credenti è questo un testo ispirato e ispiratore, per i non credenti può comunque essere considerato come un libro altamente significativo della storia civile dell'umanità, soprattutto perché in esso la questione dello straniero ha grande rilievo tematico. Il ricorso alla Scrittura non deve comunque essere falsato dal desiderio di trovarvi delle 'soluzioni' ai nostri problemi, nel senso di leggervi  risposte pre confezionate ai quesiti odierni. La Bibbia non vuole come lettori dei bambini, a cui sarebbe semplicemente chiesto di ripetere quanto è scritto e di eseguire alla lettera il suo dettato normativo; essa si rivolge invece a degli adulti, che hanno il dovere di interpretare le potenti suggestioni che vengono dai suoi racconti e dalle sue pagine normative, così da favorire orizzonti di accoglienza, prima di tutto come apertura mentale e poi come ospitalità nei confronti di chi si presenta, appunto, come straniero .

Lo straniero: elementi per una definizione

Fra i popoli antichi, a nostra conoscenza, Israele è stato quello che ha avuto la più alta considerazione della sua peculiarità, della originalità e specificità culturale della sua tradizione . E questo non perché la Scrittura   praticamente il solo testo antico che parla di questo popolo   ne faccia un elogio quale nazione superiore a tutte le altre o unica nei suoi privilegi (in termini classici si direbbe in quanto popolo eletto), ma perché la Bibbia ha incentrato essenzialmente ,lo discorso sul significato di questa piccola nazione, della sua assoluta rilevanza nel contesto delle genti e per le genti stesse . Si potrebbe dire che la Scrittura pone la diversità di Israele come valore. Contro i ripetuti e potenti tentativi di assimilazione ideologica e politica, operati dalle grandi potenze (Egitto, Babilonia, Ellenismo, Impero romano), il libro degli Ebrei difende il senso della particolarità di Israele, e ne fa uno stimolo a riconoscere, a proteggere e ad amare colui che nella storia umana si presenta come diverso e come straniero. Israele quale figura emblematica dello straniero, di fronte alla coscienza degli uomini: questa è l'immagine che la Bibbia vuole comunicare.

Perché Israele è diverso? In che senso è diverso? Siamo invitati da queste domande a cercare come nel testo sacro viene rappresentata (capita, espressa) la differenza fra i popoli . Non vi troviamo rigorose definizioni, piuttosto dei tratti, anche complessi, che aiutano a introdurci nella tematica che ci interessa.

Ci rifacciamo, in particolare, alla pagina importante di Gen 10, nella quale viene fatta una classificazione organica dell'umanità dopo il diluvio: vediamo qui apparire tre elementi che contribuiscono a dare fisionomia particolare a ogni popolo. Questi sono: l'origine genetica (in termini biblici la 'genealogia', o il riferimento al 'padre'), una lingua particolare e un territorio proprio .

Sappiamo che è stilema abituale della lingua ebraica nominare un popolo mediante l'espressione «i figli di» (Ammon, Kosh, Israele, ecc.) , e in Gen 10 si inizia appunto con «questa è la genealogia dei figli di ... ai quali nacquero figli dopo il diluvio» (Gen 10,1). Naturalmente il lungo elenco che segue è fondato sul fatto che, con il succedersi delle generazioni, si opera un processo di continue differenziazioni, che creano un albero genealogico sempre più complesso.In questa stessa pagina di Gen 10 si dice inoltre che i popoli «si dispersero» sulla faccia della terra (Gen 10,32); questa disseminazione avviene in funzione della lingua propria a ogni popolo e si concretizza nel rapporto con un determinato territorio, come recita il ritornello che conclude, con qualche variante, l'elenco dei tre discendenti di Noè: lafet, Cam e Sem: «questi furono i figli di Seni [ascendenza genetica] secondo le loro famiglie e le loro lingue [una traduzione più adatta sarebbe: secondo le loro famiglie linguistiche], nei loro territori secondo i loro popoli [che equivale a dire: nei territori nazionali]» (Gen 10,31; cfr. anche vv. 5 e 20).

La genealogia

Il primo elemento che secondo la Bibbia differenzia i popoli è il fatto di avere un diverso padre: chi discende da Sera presenta delle peculiarità rispetto a chi è stato generato da lafet o da Cam; e poi, fra i figli di Sera, sarà diverso chi viene da Arpacsad o da Peleg, e così via. Infatti, per introdurre la storia di Abramo, il narratore è obbligato a tracciare l'albero genealogico di Sem per mostrare in che modo si giunge fino al capostipite degli Ebrei (Gen 11,10 30); qui abbiamo la notazione precisa che la genealogia  termina proprio con Abramo poiché, avendo questi una moglie sterile (Gen 11,30), sembra interrompersi la catena genealogica. L'intrigo narrativo prende forma quando risuona la parola divina che promette a questo uomo di diventare «padre di una moltitudine», "padre di popoli" (Gen 12,2; 17,4 5).

Questo modo di rappresentarsi la diversità fra i popoli non ha nessuna pretesa di verità scientifica; intende solo affermare, da una parte, che la diversità fra le nazioni è reale, perché di fatto ci sono padri con "nomi" diversi, e quindi ciascuno con la sua identità particolare, ma, d'altra parte, che tutto è riconducibile all'unità. Infatti, è vero che Abramo non è Nacor, ma tutti e due sono figli di Sem, e questi, al pari di lafet e Cam, sono figli di Noè, unico padre di tutta l'umanità post diluviana. La stessa cosa vale per la discendenza di Adamo. Quindi mentre si prospettano le varie genealogie, si introduce un principio correttivo di una possibile deriva razzista, perché la diversità fra le razze (in ebraico viene usato il termine "seme") non annulla il principio unitario, quel "mono genismo" che significa la sostanziale fraternità fra gli uomini, e, in termini religiosi, afferma la figliolanza da Dio, che ha fatto l'uomo a propria immagine e somiglianza (Gen 1,26 27; 5,1), così che a sua volta partorisse figli a sua immagine (Gen 5,3)

Stupisce, in tale prospettiva, l'assenza del riferimento alla "madre", che in altre genealogie è invece menzionata. Si dirà che ciò è il riflesso della mentalità maschilista degli antichi (Ebrei), ma questa non è una spiegazione sufficiente. Sappiamo che l'incertezza biologica della paternità (maschile) ha indotto anzi gli Ebrei a identificare il discendente di Abramo piuttosto a partire dalla madre (semper certa). Ciò che va in ogni caso rilevato è che non si fa solo riferimento a una discendenza biologica, ma al padre come principio di identità giuridica, come rappresentante della legge e della religione.  L'aspetto culturale è, nella tradizione antica, espressa dal riferimento al padre; e con "culturale" intendiamo il riconoscimento legale del figlio, ed anche la trasmissione delle norme giuridiche e religiose. Le "leggi paterne", il "Dio di mio padre" sono espressioni che evocano aspetti importanti di differenziazione fra i popoli, non quindi di tipo etnico, ma di tipo culturale (in senso lato). La problematicità del rapporto fra popoli di diversa ascendenza non viene quindi da semplice ripugnanza istintiva per "razze" o stirpi diverse, ma dalla viva percezione della diversità culturale, che richiede talvolta un elevato senso di tolleranza.

In questa linea di pensiero, come Israele si "differenzia" dagli altri popoli? In che senso è diverso? Non certo per una immaginaria origine biologica diversa. Come abbiamo già detto, la genealogia di Abramo lo iscrive nella somiglianza delle genti; ma, di più, fa parte delle attestazioni di fede del popolo ebraico la memoria del suo provenire dalle nazioni. Infatti, il testo celebre chiamato dagli esegeti il «Credo storico» (cioè una sintesi narrativa della fede ebraica) fa dire all'Israelita che giunge al santuario per il rito delle primizie: «Mio padre era un arammo errante» (Dt 26,5); ed Ezechiele descrive in termini analoghi la parentela di Gerusalemme: «Tu sei   il profeta si rivolge direttamente alla città   per origine e nascita del paese dei Cananei: tuo padre era amorreo e tua madre hittita (Ez 16,3). Israele non sottolinea quindi le differenze "esterne" tra sé e gli altri popoli; spesso fa piuttosto notare le grandi diversità interne, presentando un popolo nel quale la composizione in varie tribù (a motivo di diversi padri e diversi madri) costituisce motivo di difficile coesione. In ogni caso, la particolarità di Israele non viene mai presentata come una superiorità genetica, razziale, alla stregua di certe rappresentazioni mitologiche dell'antichità, per cui un popolo si vantava di avere come capostipite un semi dio, di avere in sé quindi qualche goccia  di sangue divino (con una supposta vocazione a sottomettere gli altri, a motivo della sua ascendenza privilegiata). Troviamo al contrario la insistita considerazione che Israele è un popolo piccolo, diremmo insignificante agli occhi delle genti, ma, proprio per questa sua piccolezza e debolezza, è amato dal Signore, dal Dio di suo padre. Basti citare un paio di testi. Dt 7,7 8 recita, per esempio: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli   siete infatti il più piccolo di tutti i popoli , ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto»: l'elezione e il privilegio di Israele (cfr. vc 6) vanno quindi pensati nell'articolazione tra la piccolezza del popolo e l'amore gratuito del Signore. Anche nel racconto dell'Esodo questa prospettiva è emblematica per la comprensione della liberazione dalla schiavitù egiziana; parlando a Mosè il Signore gli rivela: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe E...]. Ho osservato la miseria del mio popolo [...], sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto» (Es 3,6.8; cfr. anche vv. 15 16).<br />Vediamo allora apparire una particolarità significativa. Israele è no popolo diverso non per la sua razza, ma per il riferimento a un padre che è stato amato da Dio, un padre errante, sofferente, schiavo, ma liberato ed esaltato dal Signore. Resistendo alle pressioni da parte di molte entità etniche e politiche che volevano assimilare le minoranze, il minuscolo popolo di Israele si farà carico di essere il simbolo concreto di questa verità, che Dio ama il piccolo, beneficandolo in modo straordinario. Israele, nella sua carne concreta, sarà diverso da tutti, perché testimone privilegiato del Nome del Signore e della sua azione nella storia, azione che ha come paradigma la glorificazione dell’umile

 La lingua

L'esperienza della pluralità degli idiomi è frequentemente ricordata nella Bibbia; in particolare è tematizzata dal racconto   che intende essere eziologico   della costruzione della città di Babele, da cui consegue, per intervento divino, la confusione delle lingue della terra. Qualcuno può anche pensare che questa varietà espressiva costituisca un evento positivo di ricchezza culturale , ma la Scrittura vi vede invece un elemento problematico. Concepito come freno a progetti di unificazione presuntuosi e probabilmente blasfemi (Gen 11,6 7), il fenomeno della molteplicità linguistica è percepito come un impedimento grave alla comunicazione e quindi alla concordia.

Tutti noi, una volta o l'altra, abbiamo fatto l'esperienza sofferta di questa differenza linguistica; più che quando vediamo un volto con tratti somatici dissimili dai nostri, proviamo disagio quando ci troviamo di fronte a qualcuno che si esprime in modo per noi incomprensibile (diciamo che parla turco, arabo, cinese... per dire che non si fa capire, che ci è estraneo); a partire da una lingua che risulta ermetica si tende poi a definire barbaro chi così si esprime. Quando infatti qualcuno, di razza diversa, parla (bene) la nostra lingua, noi lo riteniamo uno di casa, uno dei nostri; se invece un concittadino parla una lingua diversa, risulta difficile riconoscergli una piena appartenenza alla nostra comunità. In questa linea si capisce perché una delle minacce gravi che i profeti rivolgono a Israele è quella di essere invasi da un popolo dalla lingua sconosciuta, con il quale non si può discutere e trovare intese (Is 33,19; Ger 5,15).

La lingua propria di un gruppo umano è uno degli elementi più significativi per la sua identificazione e per la sua identità. La forza di questo elemento è manifestata dal perdurare delle lingue particolari, anche sotto forme dialettali, che hanno resistito e resistono a potentissime forze di assimilazione linguistica. Basti pensare, nell'antichità, alla diffusione invasiva dell'aramaico, e poi del greco e del latino, e oggi dell'inglese; ma, nonostante questa straordinaria pressione colonizzatrice, persiste il fenomeno delle lingue particolari, perché ogni idioma è un modo di 'parlare', di rappresentare cioè il mondo e se stessi. Una lingua è in realtà il primo veicolo di una tradizione culturale; ciò che consente di esprimersi 'veramente' è la lingua materna, la lingua dei padri, fatta non solo di suoni e tegole grammaticali, ma veicolo di simboli e proverbi, di poesie, racconti, canzoni. Private qualcuno della sua lingua materna, pretendendo di renderlo acculturato e più disponibile allo scambio internazionale, è quindi un atto di violenza, perché è come tagliargli le radici della sua stessa parola e quindi della sua identità.

La considerazione statica della pluralità linguistica produce l'idea di una frammentazione dell'umanità, costituita da blocchi isolati, quasi fossero una serie di monadi incomunicabili  fra loro. Le barriere linguistiche appaiono infatti talvolta più insormontabili delle montagne che segnano i confini fra gli stati. Ma la realtà non è così, perché esistono gli uomini ponte, perché gruppi umani oltrepassano le frontiere linguistiche e si fanno carico di mettere in relazione popoli diversi, o perché qualcuno si mette con pazienza a imparare il modo di esprimersi dell'altro, così da farlo proprio. Nasce così il fenomeno della 'traduzione', che è come trasportare un materiale per collocarlo in forme diverse; e nasce il mestiere dell'interprete, di colui che è capace di far da mediatore fra due culture, perché partecipe di entrambe. L'interprete è, pur nell'imperfezione del suo statuto, il segno di un incontro possibile tra individui, gruppi, popoli che non si intendono.

Se applichiamo queste rapide considerazioni al popolo ebraico, è naturale che questi abbia una sua lingua propria, con una sua specifica letteratura consegnata appunto nel testo della Scrittura. Al di là di scarsissimi reperti epigrafici e di qualche testo letterario trovato a Qumran, la totalità della lingua ebraica antica è attestata nella Bibbia; e questo ci fa pensare che la cultura ebraica, ciò che Israele lascia quindi come eredità al mondo, è una cultura religiosa, è un'interpretazione della storia fatta alla luce di quel Dio che si è rivelato in questo popolo particolare.

Non c'è però l'idea, espressione di ingenuo fondamentalismo, che solo in ebraico si possa conoscere Dio e la sua verità; la lingua Antico Testamento è certo l'ebraico, ed è questo un patrimonio da custodire con amore per accedere a una più fedele rivelazione del Signore. Ma già nella Bibbia antica alcuni libri sono stati parzialmente scritti in aramaico (come Daniele, Ester, Ezra, ecc.); esiste inoltre il Pentateuco Samaritano, che è una differente tradizione testuale rispetto a quella ebraica , e vennero quindi prodotti i Targumim (aramaici), motivati, a quanto pare, dalla nuova situazione linguistica determinatasi a Babilonia fra i deportati e probabilmente anche in Giudea (cfr. Ne 8,1 8). In seguito è il greco a diventare 'parte' della tradizione biblica, anzitutto con la traduzione integrale del testo canonico (tra cui anche i Siracide, solo da poco riscoperto nella lingua ebraica) , e poi con la creazione di nuovi libri (come il libro della Sapienza, Giuditta, Tobia), o aggiunte (come nel libro di Ester). Fino ad arrivare al Nuovo Testamento, dove si opera una svolta, non di rigetto delle tradizioni antiche, ma di assunzione di un nuovo veicolo linguistico, il greco, che rappresentava l'apertura voluta di un messaggio esteso potenzialmente a tutte le genti .

Rispettare la particolarità linguistica del popolo ebraico (e analogamente di ogni popolo) non equivale dunque alla difesa a oltranza del suo patrimonio linguistico, consiste piuttosto nel riconoscergli la capacità di dire qualcosa di molto specifico, a partire da questa stessa lingua (della quale fra l'altro, non si fa l'encomio). L'individualità di un popolo è nella sua capacità di comunicare il suo specifico tesoro spirituale, nelle modalità proprie del suo universo linguistico.

Il territorio

Le frontiere naturali, spesso consacrate (legalizzate) da trattati internazionali, sono da sempre ciò che consente a un popolo di preservare la sua identità, di porsi quindi come diverso rispetto al vicino. L'omogeneità interna, sia etnica sia culturale, è favorita se il paese risulta di piccole dimensioni, marginale e non particolarmente attraente. Merita che venga sottolineato il vantaggio che proviene da condizioni apparentemente sfavorevoli; infatti, un territorio ampio e fertile, oppure nevralgico dal punto di vista strategico, non può che essere sottoposto a vari fenomeni di invasione, cioè dall'attraversamento violento delle frontiere o addirittura da mutamenti nei suoi confini. L'invasione prende la forma della migrazione (di gruppi isolati oppure di intere popolazioni), che sono per lo più dettate da ragioni economiche, oppure assume la forma della conquista militare, con un nuovo assetto di natura politica, che spesso comporta alterazioni nell'equilibrio demografico (con deportazioni  e insediamenti) e quindi un profondo mutamento anche culturale, che può mettere radicalmente in questione l'originalità (la «diversità») di un determinato popolo.

La storia, dall'antichità ai nostri giorni, mostra che le frontiere sono in realtà estremamente fluide e non sempre significative; capita che i confini separino gruppi affini e, viceversa, uniscano entità umane disomogenee. Il progetto unificatore dei grandi imperi ha sempre avuto come modello ideale l'allargamento e persino l'abolizione delle frontiere, così che la varietà dei popoli all'interno potesse percepirsi come portatrice di identità a motivo del confronto con i 'diversi' (e quindi nemici) che stanno al di fuori : l'identità è qui puramente oppositiva (non propositiva) ed è spesso menzognera. La realtà delle 'province' è comunque talmente forte da costituire un permanente fattore sovversivo, che produce inarrestabili movimenti di indipendenza, in ordine a dare forma autonoma alle entità locali.<br />Israele, popolo in se stesso molteplice (costituito da dodici tribù e di etnie di varia natura), ma caratterizzato da una profonda consapevolezza della sua propria identità e differenza dagli altri, si è stanziato in un piccolo territorio, non certo prestigioso; la collocazione generale è chiara, ma le sue frontiere non sono mai state ben delimitate. I passi biblici che forniscono i limiti estremi del paese rivendicato da Israele o rappresentano dichiarazioni utopiche (dall'Eufrate all'Egitto) oppure presentano dati contrastanti. La realtà storica fu probabilmente complicata, con regioni periferiche conquistate e poi perse , con rivendicazioni puramente nominali, con frontiere interne (tra il Regno di Samaria e quello di Giuda) probabilmente più stabili di quelle con i regni circostanti. Se è vero allora che tutta la tradizione biblica collega il popolo ebraico con una terra, chiamata «terra di Canaan» (il nome designa i precedenti abitanti), è vero anche che questo paese non ha una chiara delimitazione geografica; e soprattutto si deve ricordare che questo medesimo popolo si è riconosciuto come speciale e diverso dagli altri anche senza configurazione territoriale, nella sua condizione di immigrato (in Egitto) e in quella di deportato o profugo (a Babilonia e nella diaspora). Il rapporto alla terra, pur così importante anche nel quadro della «promessa» divina, non sembra in realtà decisivo, non risulta indispensabile per la definizione di Israele. Israele è «straniero» per gli altri popoli, dovunque esso sia. 

Dalle considerazioni fatte finora siamo indotti a formulare un principio generale: vi sono dementi oggettivi che portano a qualificare un popolo come 'diverso'; ma nessuno ditali elementi è decisivo per la definizione dello 'straniero’ . In una formula, volutamente provocatoria, diremmo che è il diverso stesso, popolo o individuo che sia, a dichiararsi diverso, è lo straniero a proclamarsi straniero. Non sono infatti le caratteristiche genetiche (il padre comune), né il patrimonio culturale (la lingua), né una determinata porzione territoriale (chiamata patria) a definire con certezza il cittadino c/o lo straniero, anche se ognuno di questi elementi può occasionalmente contribuirvi. Quello che è decisivo è il vissuto di ognuno, ciò che urta persona, un gruppo, un popolo percepisce di se stesso, e che si manifesta proprio nella comunicazione, nell'atto attraverso il quale il 'diverso' si esprime nella sua natura particolare. Ricordo che un giorno un ebreo, convinto della impossibilità di definire lo statuto del suo popolo in base a caratteristiche genetiche, culturali o religiose, mi disse candidamente: «l'Ebreo è quello che gli altri dicono che è Ebreo» . Io rovescio la prospettiva, e dico che l'Ebreo è quello che si dice Ebreo (e questa figura può essere estesa analogicamente anche ad altri gruppi o nazioni), e dicendolo chiede di essere ascoltato nella sua individualità, nella sua diversità. Diversità e ascolto (quest'ultima è la prima forma di accoglienza) costituiscono un binomio fondamentale per una corretta antropologia anche in campo sociologico; l'ascolto è indispensabile, perché nessuno sa cosa sia il diverso se non si lascia istruite, se non accoglie quello che l'altro, nella sua inassimilabile  alterità, vuole manifestare.

Lo straniero si rivela, per questo è figura di Dio stesso. Israele, cosciente della sua particolarità, parla quindi agli altri di se stesso: questa è la Scrittura, che andiamo a leggete per imparare ad accogliete lo straniero.

Israele non parla per denigrare gli altri popoli. Certo, nella Bibbia vi sono testi di condanna delle nazioni, ma non più numerosi né più severi di quelli che denunciano i crimini di Israele e lo minacciano. Anzi, non mancano figure di 'stranieri' che la tradizione vetero testamentana apprezza come giusti; basti citare i nomi di Melchisedeq, Balaam, Rut, Naaman, Ebed Melech, Achior, Ciro, ecc. Se poi ricorriamo al Nuovo Testamento l'atteggiamento di Gesù nei confronti dei Samaritani e dei pagani (come la Cananea o come il Centurione romano di cui ha lodato la fede) ha dato il via a un progressivo riconoscimento, da parte della comunità apostolica, di coloro che, pur non essendo ebrei, erano chiamati a formare un solo popolo, una volta abbattuto dal Cristo il «muro di separazione, l'inimicizia», frapposto fra Ebrei e nazioni (Ef 2,14).

Certo, si deve riconoscere che certe pagine dell'Antico Testamento, provenienti dall'esperienza dell'esilio (frutto quindi della sofferta convivenza con lo straniero), hanno accentuato ed esasperato la separazione degli Ebrei dal resto delle genti, mediante una interpretazione del concetto di 'santità' che si traduceva in discipline esteriori di vistosa estraneità al mondo . L'intenzione del teologo e del legislatore di marca sacerdotale era di preservare la peculiarità di quel popolo, che era 'speciale', non perché avesse un diverso modo di mangiare e di vestirsi, ma aveva tali comportamenti per ricordarsi che era «santo», per la perfezione della fede e la esemplare obbedienza alla legge del suo Dio. II Nuovo Testamento, portando a compimento l'Antico, avrà una analoga insistenza sul fatto che i Cristiani, pur essendo nel mondo, non sono del mondo; tuttavia, invece di accentuare gli aspetti discriminatori in campo sociologico e culturale, la comunità cristiana ha promosso una coraggiosa 'rivelazione' di sé agli altri, facendosi ebrea con gli Ebrei e pagana con i pagani , così da rendere tutti partecipi della medesima benedizione, nella diversità propria a ognuno, e nella perfetta comunione della riconciliazione.

Israele e la sua memoria di migrante

Lo straniero si rivela, e Israele parla di sé facendo memoria della sua storia. Non è quindi la separatezza, la gestione protettiva del proprio privilegio a definire Israele, ma l'atto del farsi conoscere, in parole e gesti, agli altri: perché in questa comunicazione Israele rivela il suo Dio, che è il Dio per tutti. Il racconto è la prima modalità della rivelazione biblica, nella quale Israele è locutore e protagonista.

Israele racconta, parla di sé come di qualcuno che va incontro agli altri cercando accoglienza. La narrazione originaria infatti, quella che definisce l'essenza di questo popolo, verte sulla figura di Abramo, il migrante per eccellenza. Quando l'Israelita dice «mio padre Abramo» non evoca solo un fatto del passato, superato e contrapposto al presente, ma dice qualcosa che lo definisce, che ne spiega lo statuto essenziale (di «figlio di Abramo»). E infatti caratteristica di questo popolo non solo di avere prodotto una storia (ideale) delle sue origini, ma di essere chiamato a farne costante memoria per capire la sua propria natura e in questo aiutare gli altri.

Il racconto del migrante

La storia di Abramo (e analogamente quella degli altri patriarchi, quindi quella di Isacco, di Giacobbe e anche di Giuseppe) si contrappone alla visione statica di Gen 10, illustrata in precedenza, che prospetta una distribuzione dei popoli confinati ciascuno nel suo territorio; ma si contrappone anche alla modalità narrata in Gen 11, quella che parla di un tentativo di unificare tutte le genti in una sola città, Babele. La storia di Abramo, infatti, è una traversata delle frontiere, da una terra a un'altra, senza cogenti motivazioni economiche o politiche, senz'altra ragione che quella di assumere coscientemente lo statuto dell'immigrato come la forma rivelatoria della benedizione. E questo il concetto che vogliamo ora illustrare.

Abramo parte da Ur dei Caldei, in Mesopotamia. La migrazione, dice il testo biblico, era iniziata con suo padre, Terach, che si era portato fino a Carran, con l'intenzione di recarsi nel paese di Canaan (Gen 11,31). Alla morte del padre, Abramo ha una rivelazione (Gen 12,1 3), sente che il Signore gli parla, ingiungendogli di assumere consapevolmente la condizione del migrante («vattene dal tuo paese, dalla tua patria [...] verso il paese che io ti indicherò»: Gen 12,1). Non vengono date motivazioni per questa decisione. Certamente non si tratta di una spedizione di conquista, anche se Abramo   come risulta da Gen 14   è capace di dare battaglia e di procurarsi un largo bottino. Non vengono nemmeno esplicitate o insinuate ragioni di ordine economico: non si parla di carestia (come avverrà in seguito per il suo soggiorno in Egitto: Gen 12,10), né della ricerca di lavoro o di maggiore benessere in una terra più ricca (la Mesopotamia sarebbe, al contrario, un paese più prospero); Abramo è d'altronde ricco in bestiame e oro (Gen 13,2), e la pastorizia, pur esigendo un certo nomadismo, non obbligava certo a spostarsi in un paese lontano. La tradizione interpretativa (posteriore) dirà che Abramo ha lasciato Ur dei Caldei per sottrarsi all'idolatria e seguire l'unico vero Dio; ma è chiaro che questa spiegazione è poco soddisfacente, perché il patriarca lascia una terra idolatrica per andare in un paese altrettanto idolatrico (cfr. Gs 24,14 15): «nel paese si trovavano allora i Cananei» (Gen 12,6). L'opzione religiosa è senza dubbio significativa, ma va correttamente compresa: assumendo, per vocazione   cioè come dono e obbligo al tempo stesso  , lo statuto del migrante, Abramo si metteva sotto la protezione dei Signore (YHWH), il Dio dei migranti, che diventava così il suo Dio.

Questa condizione non è esclusiva del capostipite; come abbiamo detto, essa è tipica dei patriarchi, che non hanno mai cessato di spostarsi, facendo soggiorni anche in Egitto, in terra filistea e presso gli Aramei. Tutti i discendenti di Giacobbe finiscono poi in Egitto, vivendovi da immigrati per, una durata di 430 anni (Es 12,40). Quando la Scrittura dice che l'Ebreo «conosce l'anima dell'immigrato» (Es 23,9) fa riferimento appunto a questa esperienza, prolungata e fondatrice, che costituisce una specie di memoria genetica della stirpe, ma soprattutto una memoria dal valore spirituale: il cuore ebraico ha un'attenzione spontanea e privilegiata per chi è minacciato nel suo diritto di esistenza e nella sua dignità di uomo.

Lo statuto dell'immigrato

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi soggiornò come immigrato con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa» (Dt 26,5). Da questa celebre frase del Deuteronomio risulta come sia improprio parlare degli antichi Ebrei come dei nomadi che, per ragioni di lavoro, si spostano in varie località; il testo biblico dice che essi si fissano invece in una determinata terra, chiedendo agli autoctoni un posto dove collocarsi (agli Ebrei in Egitto viene assegnato il paese di Goshen, Abramo si stanzia vicino a Ebron, e così via). In questo modo viene a crearsi una precisa relazione fra i diversi gruppi umani che risiedono nel medesimo luogo: Israele non è più semplicemente un popolo straniero (in ebraico nokri), che passa in un territorio per scopi commerciali o altre necessità contingenti; Israele è invece un popolo che ha lo statuto dell'immigrato o forestiero  (in ebraico ger), che gode di relativa stabilità, dipendente dall'accoglienza o meno del gruppo che io ospita, dalle possibilità che gli vengono accordate di stabilirsi in mezzo alla popolazione residente. E naturale percepire questa situazione come problematica; chi arriva in un paese per restarvi può creare difficoltà.

Si è soliti affermare, con tono nostalgico, che nell'antichità (presso gli antichi, nell'età dell'oro, ai bei tempi) l'ospitalità era sacra, espressione di un valore umano comunemente recepito, frutto di una solidarietà universale favorita dal bisogno di aiuto reciproco per sopravvivere in una natura ostile . Questa visione irenica del mondo antico è però smentita da molti episodi narrati dalla Bibbia (e che possono trovare riscontro anche in altre tradizioni culturali) . Se ripercorriamo la storia delle origini di Israele noi vediamo che i patriarchi sono frequentemente minacciati; invece di essere accolti con rispetto, a essi viene fatta violenza. Un caso tipico è quello del re locale che, vedendo la bellezza di Sara o di Rebecca, se la prende (Gen 12,11 20; 26,114); sappiamo che Abramo fa passare Sara per sua sorella, e così Isacco con Rebecca, ma entrambi lo fanno... per non essere uccisi (Gen 12,12; 26,7), e questo è un segno evidente che, in Canaan, non esiste affatto un consolidato rispetto per lo straniero. Qualcosa di analogo avviene a proposito dei pozzi (si noti che la moglie e il pozzo costituiscono elementi fondamentali per la vita, per il futuro): gli immigrati scavano pozzi, ma vengono poi scacciati dai residenti che usurpano il lavoro altrui (Gen 21,25; 26,15 25), dicendo: «l'acqua è nostra» (Gen 26,20).

Emblema celeberrimo della non accoglienza nella storia patriarcale è la città di Sodoma (e Gomorra). La storia raccontata in Gen 19 illustra la tragedia della città che viene maledetta perché rifiuta l'ospitalità alla gente che intende passarvi una notte: l'omosessualità, che pure vi è denunciata, è solo uno degli aspetti del sopruso attuato nei confronti del diverso, di colui che non è cittadino, con una violenza che va fino alla volontà di uccidere .

E la medesima realtà si ripete con i «figli di Israele» in Egitto; la Bibbia dice che gli Ebrei, pur immigrati lì da molti anni, mantengono uno statuto di grande precarietà: sono costretti ai lavori forzati, subiscono misure repressive e umilianti, sono sottoposti a decreti pubblici di sterminio.

Questa esperienza, terribile, di essere in balia del re (dell'autorità) del posto, diventerà il vissuto costante dell'Ebreo nella diaspora. Di questo fanno memoria certi racconti tardivi, come quelli del libro di Ester {Assuero decreta lo sterminio degli Ebrei in tutto il suo regno (Est 3,8 9)], di Tobia [che per il fatto che seppellisce i suoi fratelli ebrei uccisi e lasciati per strada, subisce la confisca dei beni (Tb 1,1720)], oppure di Daniele [che narra dei tre giovani gettati nella fornace ardente per non essersi sottomessi alla legge religiosa del re pagano (Dan 3,8 23)], e di Daniele condannato alla fossa dei leoni per lo stesso motivo (6,1 17)] .

Abramo, e al suo seguito il popolo dei «figli di Abramo», ha assunto questa difficile condizione, diventando la figura tipica dell'immigrato, non solo però nel suo lato sofferente, ma anche nel suo risvolto benedicente. Ad Abramo il Signore promise: «renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione; benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3; cfr. anche Gen 18,18; 22,18; 28,14). Il benedetto diventa colui che porta a tutti la benedizione. Questa promessa si realizza veramente se l'emigrante mantiene, nei confronti del popolo presso cui dimora, un atteggiamento di benevolenza, nonostante la diversità della cultura, e soprattutto nonostante le minacce o i soprusi di cui è vittima.

 Abramo non combatte contro Sodoma, non la maledice; al contrario, cosciente della disgrazia che pesa sulla città peccatrice, diventa intercessore per lei, perché, se vi è un germe, anche piccolo, di giustizia, tutta la comunità venga salvata (Gen 18,22 33). Giacobbe è più volte ingannato da Labano presso cui è andato a stabilirsi, ma non cessa di badare al gregge del padrone con grande diligenza, arricchendolo con le sue fatiche (Gen 31,38 42). Giuseppe, schiavo degli Egiziani, incarcerato per una falsa accusa, mette a frutto il dono di sapienza che lo contraddistingue per fare il bene del Faraone e del suo popolo (Gen 41,1 49). Mardocheo, figlio dei deportati a Babilonia, salva il re da un complotto (Est 1,1m-p); e così via. Paradossalmente, la figura più bella dell'emigrante che dimostra affetto per il popolo che lo accoglie non è però un israelita, è invece Rut, la Moabita, che per amore si lega indissolubilmente a una famiglia di Ebrei, con una fedeltà commovente; la sua dichiarazione alla suocera Noemi che la invitava a ritornare nel suo paese dopo la morte dei marito, è stupenda: Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza dite; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te. (Rt 1,16 17)

Sappiamo che questo amore di Rut per la gente di Israele la renderà madre di Obed, l'antenato di Davide, il Messia salvatore di Israele.

Quando avviene l'incontro, nella reciproca benevolenza, si manifesta la vita. Questa è la promessa, di cui è garante il Dio di Israele, di cui Israele, fin dalle sue origini, è testimone. Anche Abramo, l'immigrato benevolo, si è dimostrato ospitale, quando, vedendo tre uomini presso la sua tenda, ha mobilitato tutta la sua famiglia per ricevere degnamente i viandanti (Gen 18,1 8). Il racconto dice che questo gesto è stato il luogo di una promessa straordinaria, impossibile: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen 18,10). Il significato del racconto è questo: la sterilità è vinta nell'accoglienza, chi è accolto come bisognoso porta in realtà la vita.

La legge a favore dell'immigrato

Il racconto biblico dice il senso che il lettore è chiamato ad assumere, credendo alla verità attestata dalla storia. Se uno crede, diventa figlio di Abramo.

Ma la fede diventa operante e fattiva per mezzo della Legge, per mezzo dell'obbedienza a norme che incarnano la benevolenza verso chi, venendo come straniero, è ricevuto come ospite, quale segno della presenza stessa di Dio nella vicenda umana: «ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35).

Parliamo qui della Legge di Mosè, che concretizza per il popolo di Israele i valori di cui esso è portatore a motivo proprio della sua storia di migrante . Le osservazioni che faremo non hanno altra pretesa che suggerire degli spunti, utili per mettere in moto la nostra creativa saggezza: l'attenzione e il rispetto per l'immigrato non può accontentarsi di una generica disposizione di simpatia, ma deve diventare sostanza, anche legale, del vivere civile, se vuole essere fedele al messaggio biblico .

La legislazione biblica si esprime in una pluralità di norme, distribuite in tre Codici principali (Es 20 23; Lev 17 26; Dt 12 26), che si differenziano fra loro non per la materia, ma per l'epoca in cui furono redatti e di conseguenza per il taglio con cui formulano e organizzano le singole prescrizioni. L'Antico Testamento mostra infatti, anche in altre pagine del Pentateuco, un'incessante attività legislativa, che lungo i secoli, ha rivisto le medesime questioni, adattando e perfezionando la normativa. Si può dire allora che la legge biblica viene presentata come emanata direttamente da Dio, che comunica a Mosè i suoi decreti; e ciò significa che la Legge ha un'origine e un fondamento intrinsecamente sapiente e benefico. D'altra parte, il medesimo testo porta le tracce chiare dell'umana mediazione; si può dire allora che le leggi vengono dall'esperienza umana, e questo in duplice senso: sono in primo luogo il frutto della memoria del passato, anzi di ciò che venne vissuto nei momenti fondatori  e qui Israele traduce la sua acuta sensibilità a favore dei deboli e in particolare dell'immigrato, fondandola sui ricordo della schiavitù egiziana  ; d'altra parte, le leggi promanano dalla esperienza quotidiana, dal discernimento attento sull'utilità o meno di determinate prescrizioni, dalla constatazione della loro ambiguità, della deriva interpretativa che ne altera lo spirito, per cui necessitano costantemente di una nuova veste, più adatta a esprimerne il valore.

La legge biblica, nei suoi precetti talvolta anche minuziosi e apparentemente insignificanti, è comunque sempre una direttiva 'aperta', nel senso che essa non va semplicemente eseguita alla lettera, ma va capita, interpretata e applicata nel contesto e nei modi opportuni. I nostri Codici e le nostre procedure tendono a precisare gli obblighi in senso minimale, limitano quindi la libertà del cittadino solo in funzione di un diritto ben preciso che vi si contrappone; la legge biblica è invece un dispositivo sapienziale, che intende favorire la massima disponibilità verso il bene, e, per la questione che ci interessa, prospetta una totale attenzione alla questione dell'immigrato. Questo è lo spirito della Legge, che osa parlare di «amore per il forestiero». E stupefacente il fatto che nell'Antico Testamento troviamo una sola volta il comando: «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18), dove per «prossimo» , si intende chiaramente il «fratello» (v. 17), il «figlio del tuo popolo» (v. 18)  ; il comando di amare l'immigrato è invece attestato in due diversi passi, che meritano di essere citati a motivo anche del contesto teologicamente rilevante: Il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto. (Dt 10,17 19)

Come si vede, l'amore dell'israelita per l'immigrato è imitazione di ciò che Dio fa per tutti i forestieri (cfr. Sal 146,9) e in particolare per Israele.

Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati fore¬stieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio. (Lev 19,33 34)

Nello stesso capitolo in cui si invita all'amore per il «prossimo» (v. 18), si fa questa straordinaria assimilazione tra cittadino e forestiero, tra l'altro e se stessi. In questa tradizione è talmente consolidata l'attenzione rispettosa per l'immigrato che   rovesciando il punto di vista abituale   essa diventa la misura con cui trattare chiunque sia in difficoltà, fosse questo un fratello; dice infatti il Levitico: Se il tuo fratello che è presso dite cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. (Lev 25,35)

Questo spirito di amore per il forestiero si concretizza in dispositivi legali, che presentiamo brevemente, raggruppandoli in tre rubriche principali: la prima ingloba i provvedimenti di natura squisitamente economica, la seconda riguarda invece gli aspetti di salvaguardia giuridica dei diritti dell'immigrato, e la terza infine tocca la sua integrazione nella comunità civile e religiosa di Israele.

Provvedimenti in campo economico

L'immigrato, nella Legge di Israele, è sempre considerato fra le categorie di persone economicamente sfavorite, menzionato spesso accinto alla vedova e all'orfano (privi di sostentamento e di tutela) e al Levia (il funzionario cultuale che, privo di terreni, vive sostanzialmente dell'assistenza pubblica). Certo, è possibile che anche un immigrato si arricchisca (Lev 25,47), ma la condizione abituale del forestiero è quella di una persona costretta a lavori umili, saltuari, scarsamente retribuiti, a professioni come quella del manovale, del bracciante, del facchino. Merita comunque di essere sottolineato il fatto che, inserendo il forestiero in una lista nella quale ci sono anche i poveri del popolo ebraico, ii legislatore mette già, in qualche modo, sullo stesso piano tutti gli indigenti che si trovano nel paese, considerandoli portatori di un medesimo diritto soggettivo: lo straniero, su questo punto, è come uno di casa, l'altro è come te stesso.

La Legge di Israele non raccomanda l'elemosina, pratica tradizionale del mondo antico e moderno a favore dei poveri, e certo non assente dal costume ebraico: ne fa menzione Tobia (Tb 1,16), e nei testi del Nuovo Testamento se ne parla come di una prassi comune. Il Pentateuco chiede piuttosto che la compassione  verso la povera gente prenda forme più organiche, meno occasionali, e salvi la dignità di colui che è bisognoso. Tre sono i modi con cui il ricco è chiamato a venire in aiuto del forestiero (indigente).

Le regole del «raccolto». I proventi dei campi sono la prima e più fondamentale forma di ricchezza, a nostro avviso da interpretare come metafora di tutto ciò che si 'raccoglie' come frutto del proprio lavoro e della benedizione divina: la Legge ebraica domanda che essi non siano totalmente accaparrati dal proprietario dei terreni, ma che una parte venga lasciata, come dimenticata , nel campo stesso, e quindi a disposizione dei poveri e specificamente degli immigrati. Quando mieti, dice infatti il precetto biblico, non preoccuparti di prendere tutto, e non tornare indietro a spigolare; la stessa cosa va fatta anche per la raccolta delle olive e per la vendemmia (Dt 24,19 22; Lev 19,10; 23,22). Si tratta, per chi sa leggere e interpretare, di una norma di straordinario valore simbolico. Presa alla lettera, la prescrizione può sembrare meschina nei confronti del proprietario (l'immagine negata sarebbe quello di un avaro che mette via anche le poche spighe cadute da un covone) e offensiva per il povero (quasi fosse un animale a cui sono lasciati i resti del pasto del ricco); ma correttamente interpretata essa significa che la benedizione che Dio ha accordato al possidente deve ricadere, senza degnazioni, e con 'discrezione' anche sui poveri, con un gesto di condivisione aperto, lasciato all'iniziativa del ricco, alla sua capacità di aprire le mani per far cadere la benedizione sugli altri. La legge dice che c'è un 'margine' di guadagno che deve essere lasciato ai poveri, come insegna appunto il precetto di Lev 19,9 10, che citiamo: Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti; li lascerai per il povero e per il forestiero.

La regola, per noi piuttosto strana e forse difficilmente paticabile, dell'anno sabbatico della terra è un altro dei provvedimenti concreti, non senza valore simbolico, previsti e imposti dalla Legge ebraica a favore degli indigenti. Viene prescritto che ogni sette anni la terra si riposi (è un'estensione quindi del riposo umano settimanale), non venga seminata né lavorata, ma sia lasciata produrre i frutti 'spontanei', i quali saranno a disposizione di tutti, del proprietario e dei poveri, del cittadino e del forestiero (Es 23,10 11; Lev 25,17) . Al di là dell'efficacia pratica di tale provvedimento, resta il valore simbolico del 'mettere a disposizione' ciò che si possiede, favorendo così il senso di uguaglianza fra tutti, di fratellanza nel godimento dei frutti che Dio fa crescere senza lo sforzo umano.

Le regole della distribuzione del reddito.

Il libro del Deuteronomio, il più attento alla condizione dei deboli e il più sensibile allo statuto dell'immigrato, va oltre la disciplina della condivisione nel momento del raccolto. Immagina che il proprietario abbia adesso in casa sua, nei suoi depositi, il frutto della terra e del suo lavoro; su questo bene, che è suo, il legislatore, a nome del Dio dei poveri, interviene per dischiudere successive piste di condivisione.

La legge delle primizie (Dt 26,1 11), a conclusione del Codice, dice che i primi proventi della terra devono essere messi in una cesta e portati dal sacerdote, così da essere poi distribuiti al levita e al forestiero (v. 11). Solo se si capisce il valore accordato alle primizie, si può capire quanto sia importante e coraggiosa questa norma: si chiede infatti all'erede della promessa di condividere con lo straniero i migliori prodotti della terra, i quali, nel momento in cui sono raccolti e distribuiti, sono gli unici a disposizione, dato che una qualche disgrazia potrebbe distruggere il successivo raccolto. Il povero immigrato non è dunque colui che deve accontentarsi dei resti lasciati nei campi, egli viene 'servito' con le prelibatezze che danno gioia e speranza ai proprietari ricchi.

 C'è poi la legge della decima, che è una decurtazione del prodotto finale, dato che di tutto ciò che è stato raccolto, una parte significativa deve essere destinata ai poveri. Annualmente la decima è assegnata ai leviti (Di' 14,22 27), per il funzionamento del sistema cultuale e per il mantenimento dei funzionari che hanno il compito di ricordare che il Signore è il Dio dei poveri. Una decima speciale si raccoglie invece ogni tre anni, con una destinazione più ampia, e cioè per il levita, il forestiero, l'orfano e la vedova  (Dt 14,28-29  e 26,12 13; cfr. anche Tb 1,8).

Non sappiamo come concretamente funzionasse questo sistema di prelevamento dei beni e di ridistribuzione della ricchezza; in particolare non sappiamo quanto l'esecuzione fosse obbligatoria e quindi esigibile dall'autorità competente; è certo però che l'Ebreo ritiene 'cosa sacra' ciò che appartiene ai poveri (Dt 26,13) e si riterrebbe gravemente colpevole se non obbedisse a questa legge divina. Le moderne regole di tassazione della ricchezza, in ordine ad apprestare i necessari servizi pubblici e sovvenire ai bisogni dei senza reddito, corrispondono all'intenzione del legislatore biblico. Resta comunque un margine per la libera e coraggiosa iniziativa dei singoli (credenti) che, di fronte al grido dei poveri, sono chiamati a condividere il loro patrimonio secondo un spirito di fiduciosa generosità.

La partecipazione alle feste. Le regole di cui abbiamo parlato hanno uno sfondo religioso, per le motivazioni che le ispirano e per il contesto in cui sono inserite; esse suppongono come accertata la fede in Dio e nella sua provvidenza. Il legislatore biblico aggiunge tuttavia un collegamento esplicito tra il mondo religioso e il mondo della condivisione, facendoli incontrare nel santuario, rendendo la celebrazione liturgica un'occasione propizia per favorire i poveri. Il santuario, si sa, era il luogo dove i credenti antichi si radunavano per ringraziare Dio e supplicano; l'espressione concreta di questa preghiera avveniva mediante offerte e sacrifici, molti dei quali servivano per dar da mangiare ai sacerdoti e agli addetti al culto, ma anche ai tanti poveri che frequentavano i luoghi sacri (Dt 12,12). Il tempio era così centro della celebrazione della vita, non solo in senso spirituale; specie in occasioni delle grandi feste agricole, nello spazio sacro venivano distribuiti gratuitamente pane, carne, vino e bevande inebrianti. La gioia della comunione con il Signore e della sua benedizione veniva condivisa da tutta la comunità (Dt 16,11.14) : l'offerente, con la sua famiglia, si faceva padre dei poveri, fratello dello straniero. «Il dono di ciascuno   dice il Deuteronomio   sarà in misura della benedizione che il Signore tuo Dio ti avrà data» (Dt 16,17).

La tutela giuridica

I provvedimenti importanti e particolarmente suggestivi a favore del forestiero povero, sono poi articolati, nella Legge biblica, ad altre norme che garantiscono il diritto dell'immigrato, in altri settori del suo vivere, in altre dimensioni della sua persona. Due sono gli ambiti che ci sembrano più rilevanti: la normativa sul lavoro e il diritto del forestiero tutelato dal giudice.

La disciplina del lavoro. Abbiamo detto che l'immigrato appartiene alla classe dei poveri perché non ha risorse stabili provenienti dal possesso di terre, e il lavoro artigianale più remunerativo non è certo lasciato agli 'extra comunitari'. C'è un testo tardivo che ci pare illuminante per illustrare il modo con cui la tradizione biblica concepisce l'organizzazione del lavoro per gli immigrati:Salomone censì tutti gli immigrati che erano nel paese di Israele: un nuovo censimento dopo quello effettuato dal padre Davide. Ne furono trovati centocinquantatremilaseicento. Ne prese settantamila come portatori, ottantamila come scalpellini perché lavorassero sulle montagne e tremilaseicento come sorveglianti perché facessero lavorare quella gente. Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore in Gerusalemme. (2Cr 2,16 18)

Il censimento, aggiornato, è misura amministrativa intelligente che consente al sovrano (il re Salomone, il sapiente per eccellenza) di calcolare la forza lavoro così da programmare adeguatamente le opere pubbliche. Questi lavoratori devono essere pagati (e quindi si deve sapere a quanto ammonterà la spesa) e devono essere inquadrati, in modo che l'ordine aumenti l'efficienza. L'opera da costruire è il Tempio (si dice qualcosa del genere anche per Davide, in 1Cr 22,2); secondo la teologia di Israele, questa è la 'casa' del Dio dei migranti, e, secondo la teologia sacerdotale, questo sarà il luogo nel quale anche lo straniero verrà ascoltato e beneficato (iRe 8,41 43). Gli immigrati quindi non sono sfruttati come mano d'opera al servizio di un progetto altrui, ma, rispettati nei diritti fondamentali, collaborano alla costruzione della casa comune, verso la quale affluiranno tutte le genti per un progetto di pace (Is 2,1 5; Zac 8,20 23).

La Legge di Israele non dice nulla sull'offerta di lavoro per gli immigrati; probabilmente non vennero trovate modalità concrete per disciplinare tale settore. Quello però che viene protetto è la garanzia del salario, dato puntualmente: Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio; così egli non griderà contro dite al Signore e tu non sarai in peccato. (Di' 24,25)

Traspare da questa citazione tutta la precarietà della vita dell'immigrato, e il rischio grave prodotto dalla mancanza di giustizia retributiva. Facciamo notare, ancora una volta, come, su questo punto, fratello e straniero siano equiparati di fronte alla legge, e siano per Dio oggetto di identica attenzione.

La Legge di Mosè tutela inoltre il riposo del lavoratore dipendente: la tradizione del sabato anche per l'immigrato è addirittura sancita nel Decalogo (Es 20,10 e Dt 5,14), ed è poi ricordata nel Codice dell'alleanza (Es 23,12): nella formula «come te», vediamo qui riapparire l'idea dell'uguaglianza tra padre e figlio, tra padrone e servo, tra autoctono e straniero, nella memoria del Dio Creatore di tutti, nel ricordo del Signore liberatore degli schiavi.

Certo, il rispetto che oggi si richiede per il lavoratore immigrato non può limitarsi a questi punti; giova tuttavia l'ispirazione biblica di cercare di introdurre, là dove è possibile, il principio di uguaglianza e di fraternità, per evitare quello che la Scrittura denuncia come peccato grave, e cioè l'oppressione del forestiero.

Il diritto difeso in tribunale.

Un diritto, anche se riconosciuto dal costume, non è veramente tutelato se non è assunto dall'istituzione giurisdizionale. Quindi il diritto dell'immigrato a un salario, al riposo settimanale, ma anche alla libertà di spostamento, alla libera iniziativa commerciale, al matrimonio, e così via, fino alla difesa giuridica presso un tribunale, tutto questo è sostanzialmente assunto dalla Legge di Israele ed esplicitato a più riprese nei suoi Codici.

Talvolta, come nel Codice dell'Alleanza, abbiamo formulazioni generiche, che condannano qualsiasi forma di sfruttamento o di malversazione nei confronti dell'immigrato; non si tratta però solo di pii auspici, ma di principi che il magistrato dovrà applicare, con saggezza e determinazione, quando venisse portato in sede giudiziaria un caso di violazione di tale diritto.

Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto. (Es 22,20)

Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete l'animo del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto. (Es 23,9)

Israele fa leva sulla memoria della sua stessa sofferta esperienza di emigre o per inculcare una condotta rispettosa nei confronti dei forestieri residenti nel paese. Il testo di Es 23,9 viene a conclusione di un paragrafo consacrato a illustrare i principi del corretto funzionamento dell'istituzione giudiziaria; ne consegue, a nostro avviso, che la non oppressione dell'immigrato equivale (anche) a rendergli giustizia in tribunale.

 Il Deuteronomio è il libro che più esplicitamente sottolinea la questione del diritto dell'immigrato. Nel racconto dell'istituzione giudiziaria, Mosè prescrive ai giudici un'assoluta imparzialità ed equità nel giudicare: «Ascoltate le cause dei vostri fratelli e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con il forestiero  che sta presso di lui» (Dt 1,16). Non si tutela quindi esclusivamente il cittadino, ma chiunque abbia ragione, poiché chi giudica ha il dovere di «dare ascolto al piccolo come al grande» senza temere nessuno, «poiché il giudizio appartiene à Dio» (Dt 1,17). Ciò che preoccupa il Deuteronomio è la «distorsione del diritto dell'immigrato»: in Dt 24,17 nel contesto dei doveri salariali, il legislatore dice che il tribunale deve vigilare perché non sia falsata c/o impedita la procedura di giusta rivendicazione eventualmente introdotta presso il tribunale. Il Deuteronomio prevede addirittura un impegno giurato da parte di tutto Israele su questo punto (Dt 27,19); in una cerimonia solenne viene affidato alla maledizione divina chi alterasse il diritto dell'immigrato.

In Lev 19,33 34, citato già a proposito dell'amore verso l'immigrato, si ritorna sul tema del non opprimere il forestiero; la legge non domanda tanto dei sentimenti quanto dei gesti di giustizia e di rispetto, garantiti al forestiero come al residente autoctono.

L'accoglienza religiosa

Persistono naturalmente numerosi elementi di differenza economica e civile (in quanto a statuto di cittadinanza) tra l'ebreo (fratello) e l'immigrato (straniero); proprio per questa ragione la Legge fissa delle norme che tendono a mitigare tale sperequazione, e introduce principi correttivi che favoriscono l'uguaglianza e la fraternità.

Quello che colpisce è che non si parla degli immigrati come di una realtà marginale, confinata in ghetti, ma di gente che abita in mezzo a Israele . Questa notazione serve per far capire che l'accoglienza raggiunge la sua perfezione quando riesce a integrare lo straniero, a incorporarlo, a renderlo parte della comunità. Immaginiamo facilmente che i forestieri in Israele (da qualunque parte venissero) cercassero di inserirsi nel paese mediante l'apprendimento della lingua e mediante anche l'accettazione dei costumi del popolo che li accoglieva  (pensiamo all'esempio perfetto di Rut). Già abbiamo visto che io straniero partecipava alle feste del raccolto e al sabato, adattandosi ai ritmi della produzione e del riposo tipici di Israele.

Ci sembra chiaro tuttavia che l'immigrato, specie se trovava accoglienza generosa, tendeva a sposare i valori giuridici e religiosi del popolo ospite, non solo per una migliore intesa, ma anche perché vi riconosceva l'ideale morale a cui egli stesso aspirava, anche perché veniva a 'conoscere' un Dio a cui era bello potersi affidare. Non ci fu, durante la storia vetero testamentaria, un movimento significativo di proselitismo ; ma se Israele non cercava adepti, vi erano però coloro che, vivendo in mezzo a loro, chiedevano di far parte del popolo in maniera più stretta, con vincoli di maggiore solidarietà. Si spiega così il fatto che il termine ger, che per molto tempo ha significato solo «immigrato», assuma in testi tardivi (e specie nella versione della LXX) il valore di «proselito», cioè di colui che non solo abita con Israele, ma che si assimila a lui religiosamente con la accettazione della medesima Legge .

Di particolare valore è l'ammissione del ger alla celebrazione della Pasqua, se però questi è circonciso (Es 12,47 49): si tratta di una possibilità, non di un obbligo, sulla base di una richiesta a cui Israele deve consentire senza rinchiudersi in un isolazionismo etnico. Non stupisce che l'immigrato voglia celebrare la festa della liberazione degli schiavi, degli oppressi che il Signore ha liberato e a cui ha offerto una legge di libertà e dignità. Non stupisce neppure che l'immigrato chieda la circoncisione, il «segno» di Abramo il migrante (Gen 17); meraviglierà forse qualcuno che l'Ebreo accetti di donare allo straniero il segno della sua privilegiata alleanza e della sua speciale benedizione.

Celebrare la Pasqua, assieme, non è un atto staccato dal resto dell'esistenza; in questo gesto, infatti, viene significata una perdurante comunione di vita. Questo possibile e progressivo fenomeno di integrazione religiosa sembra trovare figura ideale in un testo tardivo del Deuteronomio, che, elencando i membri componenti il popolo dell'alleanza nuova (quella che va «oltre» l'alleanza sinaitica: Dt 28,69), vi include anche il forestiero: Oggi voi state tutti davanti al Signore vostro Dio, i vostri capi, le vostre tribù, i vostri anziani, i vostri scribi, tutti gli Israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli, il forestiero che sta in mezzo al tuo accampamento, da chi ti spacca la legna a chi ti attinge l'acqua, per entrare nell'alleanza del Signore tuo Dio. (Dt29,9 11) L'idea qui espressa è che il vero Israele è quello che accoglie al suo interno il non Israele per renderlo partecipe della benedizione di cui gode, della relazione con il vero Dio, della saggezza della Legge.

Lo stesso Deuteronomio, al capitolo 23, detta alcune regole per l'incorporazione dello straniero nella comunità; alcuni popoli vi sono ammessi, altri esclusi. Se interpretiamo bene, la legge dice che viene escluso chi non pratica l'accoglienza (come gli Ammoniti e i Moabiti, che hanno rifiutato di soccorrere Israele nel deserto; vv. 4 7), mentre invece viene reso partecipe dell'assemblea   dopo un certo tempo, magari «alla terza generazione»  chi ha in qualche modo accolto il popolo di Dio (come gli Egiziani) (vv. 8 9). In sintesi si direbbe che può essere integrato in una comunità chi fa dell'accoglienza il principio normativo del suo comportamento.

Conclusione

A più riprese, la Legge biblica insiste sul fatto che vi è una sola Legge che vale per l'Ebreo e per il non Ebreo immigrato. Questo principio si applica a precise regole religiose, come il rituale dei sacrifici (Lev 17,8; Num 15,14 16; ecc), il rispetto del nome del Signore (Lev 24,16), il divieto di mangiare il sangue (Lev 17,12), ecc.; ma viene ribadito anche per provvedimenti di natura sociale e di protezione della vita (Lev 24,22), come la legge sulle città di rifugio (Num 19,10; Gs 20,9) o il divieto di dare i figli a Moloch (Lev 20,2); ecc. Questo modo di concepire la norma mostra che è nel riferimento alla mediazione legale, uguale per tutti, che i cittadini trovano le forme, proporzionate e perfettibili, della loro fraternità.

Come il padre trasmette la Legge ai figli perché vi sia unità nella casa e giusto rispetto per ognuna delle diverse individualità, così, analogamente, l'Ebreo trasmette la legge all'immigrato, non obbligandolo su tutto, ma facendolo partecipe sui punti essenziali di convivenza, perché vi sia pace, perché venga tutelato il rispetto reciproco, e venga promossa la qualità della vita. L'Ebreo dona la Legge come strumento di comunione. Questo dono infatti rende l'altro simile a sé, lo rende a propria immagine e somiglianza. Abbiamo allora, a conclusione del nostro percorso, una specie di ribaltamento della prospettiva presentata all'inizio: si diceva che l'Ebreo ha origini da un pagano (Amorreo, Cananeo, Hittita: cfr. Di' 26,5; Ez 16,3); ebbene, qui si profila l'idea che l'Ebreo dia nascita ai pagani, non in senso genetico, ma in senso spirituale, a motivo del dono della parola della Legge. La città di Gerusalemme, da cui viene la parola del Signore e la Legge (Is 2,3), è infatti la città in cui «tutti sono nati» (Sal 87,4): Babilonesi, Filistei, Fenici ed Egiziani hanno lo stesso registro anagrafico del figlio di Abramo, non certo come se si avesse una nuova Babele, ma, perché la Legge è per tutti principio di vita, perché essa guida al riconoscimento dell'Unico Signore, il Dio dei poveri, il Dio di tutti gli uomini.

Ultima modifica il Venerdì, 30 Gennaio 2015 15:28
Devi effettuare il login per inviare commenti