Sabato, 23 Gennaio 2021 08:31

Qohelet: senza Dio tutto è solo un soffio

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Domenica 17 gennaio 2021  è 32ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Al centro della riflessione comune, uno dei libri più noti della Bibbia. Riportiamo  la presentazione di Avvenire del 16 gennaio e una breve introduzione al libro di don Luca Mazzinghi, Biblista fiorentino  docente al PIB

«Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo». Sono le parole della dichiarazione del Vaticano II Nostra Aetate che ispira la 32ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si tiene domenica.

È un’iniziativa che prese vita, appunto, 32 anni fa, nel 1989, per volere della Conferenza episcopale italiana e venne fissata il 17 gennaio, il giorno prima dell’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il tema della Giornata di quest’anno è il libro del Qohelet, che conclude una riflessione comune sulle Meghil-lot, in ebraico «i rotoli», nome che identifica cinque libri della Bibbia: Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qohelet ed Ester. Sul sito ecumenismo.chiesacattolica. it è disponibile un robusto sussidio a curato dalla Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei, prefato dal suo presidente, il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino Ambrogio Spreafico – che fa anche il punto sulle iniziative comuni tra ebrei e cattolici nell’anno passato e in quello che si è aperto – e con due commenti: uno di rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo della Comunità ebraica di Genova, l’altro di don Luca Mazzinghi, dell’arcidiocesi di Firenze e ordinario di esegesi dell’Antico Testamento presso la Pontificia Università Gregoriana.

«Da molti questo libro è ancora chiamato Ecclesiaste, dal termine con il quale venne tradotto dalle antiche versioni greca e latina l’ebraico Qohelet, che indica probabilmente un uomo che parla nell’assemblea, qahal » spiega Mazzinghi, che cerca di rappresentare, stilizzandolo con tre pennellate, questo misterioso personaggio e il libro che da lui prende il nome. « Qohelet insegna tre cose. La prima è un messaggio apparentemente negativo: tutto è hebel, termine ebraico che fu tradotto da Girolamo nella Vulgata con vanitas, da cui la maggioranza delle traduzioni moderne con “vanità”, ma che letteralmente vuol dire soffio, vapore. Tutto è un soffio, ovvero tutto passa, tutto è transitorio, la realtà ci sfugge di mano. E, aggiungerei, tutto appare assurdo, la realtà non è come dovrebbe essere, “non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9). Per un motivo soprattutto: la morte, che rende tutto vuoto – e lo capiamo tanto più in questo tempo di pandemia. Inoltre Dio c’è, ma è come se non desse risposte, sembra muto».

Questo è il polo freddo, negativo del Qohelet, quello che la maggior parte dei commentatori evidenzia, spesso in modo esclusivo. Da questo punto di vista, il Qohelet è la sentinella critica che ci ancora avverte come la realtà è complessa e ogni teologia imperfetta. Però il biblista fiorentino è tra gli studiosi che sottolineano la presenza di un polo positivo: «Sono i passaggi sulla gioia; non a caso nell’ebraismo il Qohelet viene letto a Sukkot, la festa delle Capanne, festa della gioia per eccellenza, anche della gioia della Legge. Nel Qohelet la gioia si presenta tuttavia in modo semplice, quotidiano: “Ecco ciò che io ritengo buono, che è appropriato mangiare, bere e godersi il frutto del proprio lavoro faticoso per il quale ci si affatica sotto il sole, nei giorni contati della propria vita, che Dio concede all’essere umano: questa infatti è la parte che a lui spetta” (Qo 5,17)». Qui però ci troviamo di fronte a un dilemma: come tenere insieme due aspetti in apparenza contraddittori? Tutto è un soffio, la morte porta via tutto, eppure una semplice gioia è possibile: ma come?

«Esiste nel libro del Qohelet un terzo tema – risponde Mazzinghi – che è quello davvero centrale: Dio. Dio viene citato 38 volte, tante quante hebel, più due volte nell’epilogo, scritto in realtà da un discepolo di Qohelet. E in queste 38 volte i verbi associati a Dio sono sostanzialmente tre: “dare”, “fare” e “temere”. Il Dio del Qohelet dà all’essere umano il compito di esplorare, di cercare il senso della realtà. Dà poi all’umanità la vita e soprattutto dà la gioia. È poi un Dio che fa tutto ciò che vuole perché è sovranamente libero. È un Dio che chiede di essere temuto, di essere creduto per quello che è, non per quello che noi vorremmo che fosse. Un Dio al di là dei nostri schemi e delle nostre teologie. Ma è tuttavia un Dio che esiste, che c’è, che è presente: “il tuo Creatore” (Qo 12,1). Così Qohelet riesce a superare l’impasse tra pessimismo e ottimismo. Se non ci fosse questo Dio, tutto sarebbe davvero un soffio che svanisce nel nulla e la gioia sarebbe davvero solo un’illusione».

 
 
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Il Qohelet fa parte di quel gruppo di libri biblici che chiamiamo “sapienziali”, assieme ai Proverbi, Giobbe, Siracide e Sapienza. Libri di carattere educativo, in realtà non molto letti, destinati ai giovani per aprire il cuore e la mente all’arte del vivere. La sapienza, per la Bibbia, non è una questione di nozioni da apprendere, ma di esperienza da mettere a frutto; un cammino di ricerca nel quale rientra anche la fede in un Dio che si fa cercare e trovare presente nel mondo. 
 
“Qohelet” è un termine ebraico connesso con la “assemblea” (in ebraico qahal) e rimanda a un nome fittizio, a un maestro che parla in pubblico; opera di un saggio che si nasconde dietro alla maschera del grande re biblico Salomone. L’autore mostra con molta ironia come il progetto salomonico di un re saggio, ricco e felice, sia in realtà un progetto fallito; si veda in particolare tutto il capitolo 2. L’opera è stata composta quasi certamente verso la metà del III secolo a.C., quando Israele era ormai venuto a contatto con la cultura ellenistica. Da questa nuova cultura, così diversa dalla propria, il Qohelet si lascia provocare, rileggendo criticamente la tradizione ebraica, pur restandone allo stesso tempo profondamente ancorato. 
 
Il metodo seguito dal Qohelet è quello proprio dei saggi di Israele, ovvero l’esperienza critica della realtà; si veda il testo programmatico di 1,13-15: «ho cercato e ho esplorato con sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo…». L’autore dell’epilogo, probabilmente un discepolo fedele, aggiungerà che il Qohelet «ascoltò, ricercò e compose molti proverbi» (12,9). Il Qohelet è tuttavia ben consapevole dei limiti dell’esperienza, il primo dei quali è il mistero dell’agire di Dio che nessuno è in grado di penetrare; se infatti ci fosse un saggio che dicesse di sapere, neppure lui ha davvero compreso (Qo 8,16-17); eppure proprio «cercare e esplorare» è il compito che Dio ha affidato all’uomo, pur se si tratta di un brutto compito, perché più che l’essere umano cerca, più scopre i propri limiti (cf. ancora Qo 1,13 e 3,10-11). 
 
Il primo risultato della ricerca del Qohelet è infatti negativo: il libro si apre con un celebre ritornello: «assoluto soffio, dice il Qohelet, assoluto soffio, tutto è un soffio». 
La maggior parte delle traduzioni moderne, cominciando dalla Bibbia CEI, tradisce il testo del Qohelet, insistendo a seguire la traduzione latina di Girolamo che intedeva il termine ebraico hebel (“soffio”) come “vanità”, moralizzando così il messaggio del Qohelet: «vanità delle vanità, tutto è vanità». La realtà è per il Qohelet un soffio: transitoria, effimera, inconsistente, persino assurda. In particolare, emerge tutta l’assurdità della violenza (4,1-2), dell’avidità e della ricerca del denaro (5,9-10) e del potere (5,7-8). Anche la natura e la storia sembrano almeno a prima vista un movimento privo di senso; si vedano i bei poemi di 1,4-11 e 3,1-9: “non c’è niente di nuovo sotto il sole!” (Qo 1,9). Ma è soprattutto la morte ciò che toglie agli esseri umani ogni illusione; su questo punto, il Qohelet ha parole molto dure; non c’è differenza tra esseri umani e bestie, perché tutti muoiono allo stesso modo e tutti vanno nello stesso luogo (Qo 3,18-21); c’è un’unica sorte per tutti e alla fine la morte livella ogni differenza (cf. Qo 9,1-6). La morte mette soprattutto in discussione l’idea tradizionale che Dio premi i giusti e condanni i malvagi; ciò non avviene né in questa vita (8,11-12) né in un ipotetico aldilà che per il Qohelet non esiste affatto (9,2-3). 
 
Nel passato gli interpreti del Qohelet si sono fermati quasi esclusivamente su questo aspetto negativo del libro, che è senz’altro ciò che più colpisce il lettore. La tradizione cristiana antica, di fronte a queste critiche così radicali, ha cercato di salvare il Qohelet, specialmente a partire dal suo traduttore latino, Girolamo, facendone un cantore della vanità di tutte le cose e della fuga mundi. Il Qohelet si è così trasformato in una sorta di monaco ante litteram che esorta a fuggire i beni effimeri di questo mondo in vista dei beni eterni. I commentatori moderni, invece, ne hanno per lo più sottolineato il pessimismo radicale, facendone così uno scettico e non di rado persino un ateo. In ogni caso, il Qohelet è un realista che smaschera ogni umana illusione di onnipotenza, ricordandoci che la morte sta sempre di fronte a noi. Grande lezione, in questo tempo di pandemia. 
 
C’è tuttavia nel libro del Qohelet un polo positivo, un secondo tema che lo percorre per intero e che spesso viene trascurato dai commentatori: quello della gioia, che viene affermata con forza in sette testi, posti sempre dopo uno sviluppo negativo (2,24-26; 3,13-14; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-10; 11,7-12,8; cf. anche 7,14). In una vita apparentemente priva di senso è possibile per il Qohelet trovare frammenti di una gioia reale, semplice, ma concreta («mangiare e bere»), purché tale gioia sia vista come una “parte” data all’essere umano da Dio, come un suo “dono” e non come una conquista da parte dell’umanità. E così, scrive il Qohelet, «Ecco ciò che io ritengo buono, che è appropriato mangiare, bere e godersi il frutto del proprio lavoro faticoso per il quale ci si affatica sotto il sole, nei giorni contati della propria vita, che Dio concede all’essere umano: questa infatti è la parte che a lui spetta. Poi, ogni essere umano al quale Dio abbia dato ricchezza e sostanze e il potere di servirsene, di prendere la propria parte e gioire della propria fatica, tutto questo è dono di Dio» (5,17-18). 
 
Ma perché tale gioia sia possibile, ecco emergere il terzo grande tema del libro, la figura di Dio, che mai il Qohelet chiama con il suo nome sacro di YHWH, il Signore; sono anche assenti temi biblici centrali come quelli dell’alleanza, della benedizione, della salvezza. Del culto egli parla solo in 4,17-5,6, in modo critico. E tuttavia Dio (in ebraico ’elohîm) è menzionato nel libro ben quaranta volte; in un solo caso con un suffisso personale: «il tuo creatore» (12,1). Dio è soggetto per ben undici volte del verbo “fare” e per sette volte del verbo “dare”; è un Dio che «fa tutto» (11,5), senza però che l’essere umano possa in alcun modo giudicarlo (7,13; cf. anche 6,10-12). E tuttavia è un Dio che “da” all’uomo la vita, pur se breve (9,10), e la gioia, come si è visto (3,14). Su questi doni non goduti Dio chiederà conto ad ogni essere umano (11,9). 
 
Il Qohelet si propone come una sorta di sentinella critica, che ci toglie ogni pretesa di poter racchiudere Dio nei nostri schemi, fossero pur quelli di una tradizione venerabile. Allo stesso tempo, il Qohelet propone ancora oggi un sano realismo; egli non accetta facili soluzioni che portino i credenti a rifugiarsi in un futuro ideale e illusorio, ma lontano dalla vita quotidiana. Per il Qohelet, l’unico atteggiamento possibile nei confronti di un tale Dio è il “temerlo”; si vedano 3,14; 5,6; 7,15-18; 8,11-14; 12,13-14. L’umanità deve riconoscere il mistero dell’agire di Dio e accettarlo nella sua radicale incomprensibilità, scoprendo però allo stesso tempo che un tale Dio continua ad essere presente nelle piccole gioie che, nonostante tutto, la vita è in grado di offrire. 
 
*Don LUCA MAZZINGHI, parroco di San Romolo a Bivigliano (Fi), già Presidente della Associazione Biblica Italiana, è docente alla Pontificia Università Gregoriana Ha pubblicato numerosissimi articoli e libri nel campo degli studi biblici. 
 
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