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Martedì, 12 Gennaio 2021 10:36

"Chiedetemi se credo in Dio". Leonardo Sciascia e la Bibbia

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«A un giornalista della televisione svizzera che gli chiese quale fosse la domanda che non gli era mai stata posta e alla quale avrebbe voluto rispondere, disse: “Se credo in Dio”. Avrebbe avuto tanta voglia di rivelare che era un credente». Anna Maria Sciascia, 74 anni, parla del rapporto del padre Leonardo con la fede in un’intervista esclusiva con Famiglia Cristiana, pubblicata nel primo numero del 2021 «Era profondamente cristiano nell’anima», confida ancora Anna Maria Sciascia: «Se in pubblico appariva taciturno e riservato, in famiglia si dimostrava allegro, ironico e grande affabulatore».

«Mio padre era profondamente cristiano nell’anima, come dimostrarono le parole che volle incise sulla sua tomba (“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”)», conclude Anna Maria Sciascia. «Due suoi libri furono particolarmente impregnati della sua visione cristiana: Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D. e L’affaire Moro»

https://www.famigliacristiana.it/articolo/leonardo-sciascia-parla-la-figlia-anna-maria-papa-diceva-chiedetemi-se-credo-in-dio.aspx

Dal sito "altritaliani.net" riportiamo un interessante articolo di Francesco Diego Tosto sul rapporto tra Sciascia e la Bibbia.

Il rapporto che Leonardo Sciascia ha con la Sacra Scrittura non emerge dalle sue opere in maniera esplicita. Pochi sono, infatti i riferimenti specifici, più numerose certamente le allusioni. Ciò non toglie che la  produzione letteraria dello scrittore di Racalmuto risenta dell’importanza dei contenuti della Bibbia come paradigmi esistenziali, regole di vita – sostiene l’amico sacerdote, don Alfonso Puma – <<qualcosa come dare la corda all’orologio perché non lo trovi mai fermo all’indomani>>.[1] In effetti, i temi dell’esilio, del distacco dalla propria terra, della libertà, della sete di giustizia, sono temi biblici;[2] immagini come il labirinto, il pozzo in fondo al quale giace la verità, o ambienti desolati come il “chiarchiaro”, dove <<Dio ha gettato la spugna>> (Il giorno della civetta), contengono un taglio metafisico e un’origine scritturistica. D’altronde, Sciascia conosce bene  gli scrittori cattolici (Manzoni, Pascal, Claudel, Guitton) e, frequentandone i pensieri, ne ricava spesso motivi e linguaggi. Lo stesso suo anticlericalismo, privo comunque di un’impostazione ecclesiologica, non tocca mai dottrina e fede ma la Chiesa come istituzione affaristica, corrotta, immersa nella storia ma <<refrattaria al Cristianesimo nella sua essenza>> (Alfabeto pirandelliano),[3] incline a pratiche superstiziose e a mistificazioni grottesche. Sciascia, crede in un cristianesimo genuino, evangelico, razionale e nei sacerdoti profeti, fedeli al “messaggio della Montagna”, e per quanto riguarda il suo rapporto con il Libro sacro, “un grande racconto”, dichiara in un’intervista concessa a V. Messori di leggerlo spesso  e in particolare i Vangeli: <<Io leggo i Vangeli, e anche spesso. Ne ho due copie: una grande con le litografie di Casorati; l’altra è l’edizione che Neri-Pozzi pubblicò anni fa facendola tradurre da Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli e apponendovi la bellissima prefazione di D. Giuseppe De Luca […] A volte leggo anche nell’antica traduzione del protestante G. Diodati ma per gusto, diciamo letterario>>.[4] Una dichiarazione in cui lo scrittore siciliano riconosce la Bibbia come fondamento e che rivela –come spesso soleva ripetere- una vita “religiosa”, per niente atea: uno scrittore vero –era solito dire- non può dirsi essenzialmente ateo; in tutti, anche nei santi, si insinuano talvolta domande inquietanti. A tali domande può rispondere la Bibbia, i cui contenuti Sciascia trasferisce senza nomi propri nelle sue opere.

Alla luce di tali coordinate appare pertanto credibile rintracciare nella descrizione del contesto secolarizzato del popolo siciliano la forza impetuosa di quel profetismo biblico che denuncia le ipocrisie dei cattivi padroni, l’ingiustizia dei camaleonti della politica, la condizione degli indifesi. Così come il profeta Isaia[5] invoca Dio a soccorrere gli oppressi, allo stesso modo Sciascia grida la condizione sociale dei salinari che, se ammalati o infortunati, non mangiano, avendo “duecentoottanta lire al giorno” ( Le parrocchie di Regalpetra);[6] e ancora, come Amos[7] e ancora Isaia[8]  si scagliano contro l’uso del bene comune a favore di pochi, con la stessa energia lo scrittore siciliano accusa i detentori del potere, i giudici corrotti e quella loro avidità e avarizia, che San Paolo definisce pleonexìa (aspirazione ad avere di più,[9]) e di cui si ha testimonianza anche nel Vangelo di Luca.

La storia conflittuale del popolo siciliano non è che un aspetto dell’inquieta storia universale, che dagli stenti del popolo d’Israele giunge al male di vivere inveterato in quella “sicilitudine” che <<arriva all’intelligenza e al destino dell’umanità tutta>> (La corda pazza).[10] I fatti descritti nelle opere civili dello scrittore contengono così, pur nel loro realismo e nella loro oggettività, quell’allusività che rimanda altrove, ad una collettiva inquietudine. La Sicilia di Sciascia si offre come laboratorio di sperimentazione universale e <<ricerca sotterranea di Dio>> (La Sicilia come metafora),[11] come testimonianza di quella umiltà che costituisce  la condizione privilegiata  della Grazia divina (Il cavaliere e la morte)[12] e che riecheggia San Paolo, il quale asserisce che <<la potenza [di Dio]  si dimostra perfettamente nella debolezza>>[13], che umilia l’arroganza dei valori mondani.

Sciascia con Mons. Angelo Rizzo, suo amico e vescovo di Ragusa

Una religiosità aconfessionale quella di Sciascia, ma aperta alla vita, alla promozione umana, sociale e culturale; una laicità dubbiosa e sofferta, che partendo dal messaggio biblico giunge naturalmente al progresso, alla solidarietà, <<al cancello della preghiera senza varcarlo>> (Il cavaliere e la morte).[14] Sarà esso “la porta del cielo” di Giacobbe o la “la porta della fede” aperta agli Apostoli, sarà la soglia estrema di Qohelet o ancora “la porta stretta” di Luca, “il cancello della preghiera” rappresenta un varco o un ostacolo, una speranza o una “disianza” in prossimità comunque di quel mistero a cui conduce Cristo. Questi, come insegna secondo Sciascia il Vangelo di Luca, è <<una presenza viva e inquietante, una passione, un’agonia fino allo svelamento della verità […] l’eterna domanda può trovare risposta soltanto nella verità, non in una spiegazione o definizione della verità. La verità è>> (Nero su nero).[15]

Negli stessi drammi popolari che nascono in Sicilia, la cui <<natura è contraddittoria ed estrema>> (La corda pazza)[16] Sciascia individua i conflitti esistenziali dell’uomo; essi sono il segno esteriore di un tormento interiore, la speranza di far prevalere le proprie ragioni. E le feste religiose, attraverso una prospettiva metastorica ed escatologica, sono una imitatio Christi, così come la Passione, tra devozione e blasfemia, tra campanilismi e baruffe di devoti, è sempre quella operante nella storia di tutti gli uomini (Dalla parte degli infedeli).[17] Più che il dramma del divino sacrificio è il dramma del male di vivere, dello sgomento di fronte alla morte. Un codice biblico e un’ansia religiosa sottende la visione cruda della realtà, per cui Don Mariano (Il giorno della civetta) è paragonato ad <<una massa irredenta di energia umana>>, di “solitudine”, di “tragica volontà” (<<la Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio>>, Il giorno della civetta);[18] e inoltre, don Gaetano, prete subdolo e scettico riconosce che fuggire non è possibile (Todo modo).[19] <<L’esodo da Dio è una marcia verso Dio>> (Il cavaliere e la morte)[20] e <<il morire è l’ultima speranza>> (Una storia semplice).[21]

E nelle opere di Sciascia c’è sempre una speranza di rinnovamento, un desiderio di pace, di dialogo, l’apertura ad un’intesa pascaliana tra cuore e ragione; per lui Dio non aveva bisogno di “mostrarsi”, viveva già nelle lande desolate, nella “vivencia” di un popolo pur sconfitto, nell’incessante anelito alla verità e nella forza della letteratura, che tra Courier, Pascal, Voltaire e Diderot è più volte definita “un atto fondamentale di ottimismo”,  in quanto denuncia e ragguaglio della realtà oltre che cifra della moralità e del dubbio. La letteratura è investigazione e come tale ha un fondamento metafisico e nella Bibbia la sua fonte principale:  non per niente <<il primo racconto poliziesco e il primo investigatore della storia è il profeta Daniele che, oltre al caso di Susanna, sciolse il mistero dei sacerdoti>> (Cruciverba).[22] Così Sciascia trova nelle Scritture l’archetipo della verità.[23]

Francesco Diego Tosto (Da Catania)

[1] Citazione riferita da A. Nuzzo, Il Dio di Sciascia, Oasi editrice, Troina (Enna) 1997.

[2] Non sono pochi oggi gli scrittori del Novecento che attingono dalla Bibbia nelle loro opere. Tra gli studi più recenti si vedano K. Schopflin, La Bibbia nella letteratura mondiale, Queriniana Brescia 2013; S. Bonati, Bibbia e Letteratura, Claudiana/EMI, Torino- Bologna 2014.

[3] Adelphi editore, Milano 1989. Si precisa che per le opere di Sciascia, date le continue edizioni, ci limitiamo a citare la casa editrice e l’anno in nostro possesso, per cui abbiamo fatto ameno dell’indicazione della pagina.

[4] Cfr. O. Gurgo, La religione di Sciascia in “L’informazione”, 20 novembre 1994.

[5] Isaia 1,11-18.

[6] Adelphi, Milano 1991.

[7] Amos 6,1-6.

[8] Isaia 58,6-9.

[9] Col 3,5; Lc 12,15.

[10] Adelphi, Milano 1991.

[11] Mondadori 1979.

[12] Adelphi, Milano 1988.

[13] 2 Cor, 12, 7-9.

[14] Si veda la nota 12.

[15] Adelphi, Milano 1979.

[16] Adelphi, Milano 1970.

[17] Adelphi, Milano 1993.

[18] Adelphi, Milano 2002.

[19] Adelphi, Milano 2003.

[20] Si veda nota 12.

[21] Adelphi, Milano 1989.

[22] Adelphi, Milano, 1998.

[23] Si veda, a conclusione di queste osservazioni, F. Castelli, Leonardo Sciascia tra Voltaire e Pascal in “La Civiltà Cattolica” 2011 IV, 107-119.

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