Sabato, 12 Settembre 2020 20:04

Willy, la rabbia dilaga in un’Italia che non educa più i suoi figli

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È l’odio per l’odio, epidemia sottovalutata, a fare da solvente a quella colla sociale che ha fatto di noi una democrazia rispettabile e rispettata. Minimizzando, si diventa complici di una mutazione di cui la notte di Colleferro è una sirena d’allarme che fingiamo di non sentire.

Forse occorre rendersi conto dell'urgenza della questione educativa e della latitanza operativa soprattutto della chiesa in quello che è l'ambito dell'educazione delle coscienze. (ndr)

 

Riportiamo un articolo di Carlo Verdelli apparso sul Corriere della Sera del 11 settembre 2020. Rimaniamo a disposizione degli aventi diritto per l'immediata rimozione dal nostro sito.

Forse abbiamo un problema più urgente del Recovery Fund, dell’esito del referendum o di chi vincerà alle prossime Regionali. Persino più urgente dell’onda rimontante dei contagiati dal Coronavirus. Il problema è la rabbia, che sta sradicando le protezioni sociali che la contenevano e dilaga senza freni, senza limiti. Il problema è che cosa stiamo diventando come Paese, rassegnati al peggio.

Il problema, per esempio, è Willy Monteiro Duarte, straziato di botte e lasciato lì a rantolare, rannicchiato come un feto, in una piazza di Colleferro, che è intorno a Roma ma potrebbe essere ovunque. Willy pestato a sangue e a morte da tre o quattro balordi tatuati, appena più adulti di lui, scesi da un suv nero per sistemare a modo loro un inizio di rissa. Lui che prova a rialzarsi da terra dopo ogni scarica di colpi, facendosi forza sulle braccia, fino alla botta letale. Aveva cercato di smorzare gli animi appena si erano accesi, in soccorso di un amico finito sotto il tiro dei nuovi selvaggi. Dai, smettetela, andiamo via. «Non dimenticherò mai il rumore del suo corpo che cadeva», dirà un testimone. Sono le tre di notte, finirà di spegnersi alle cinque, squassato da una furia senza causa, senza senso. La fine tragica di un sabato italiano, ma di un’Italia brutta e cattiva che non vogliamo riconoscere, più indifferenti che allarmati.

Il funerale di Willy, oggi, è il funerale di una nazione che non sa più educare né proteggere i propri figli, dove accelerano, come ha scritto su questo giornale Walter Veltroni, i rischi di scollamento. Ed è l’odio per l’odio, epidemia sottovalutata, a fare da solvente a quella colla sociale che ha fatto di noi una democrazia rispettabile e rispettata. L’odio per chi è diverso, per chi viene da fuori, per chi è grasso, per chi è debole, per le donne, per chi ha un handicap, per chi prova ad opporsi alla legge del più forte, che non rientra, non ancora almeno, tra le leggi che come nazione ci siamo dati.

Guardatela e riguardatela, per favore, la foto di Willy Monteiro Duarte a scuola, con una camicia di jeans, la sfumatura alta dei capelli crespi, così sorridente e felice, così dolce verso la vita e i compagni che gli stavano accanto. Aveva 21 anni, lavorava come apprendista cuoco e sognava di diventare calciatore. Era un ragazzo buono, italiano di Capo Verde, che è come dire italiano di Ascoli o di Biella. Forse non c’entra nemmeno il colore ambrato della sua pelle, anche se il colore della pelle ricomincia a fare la differenza, in peggio per chi non è bianco bianco.

Cronache di questi giorni. A Lecce, alla cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria a Yvan Sagnet, camerunense, attivista per i diritti dei braccianti, il centrodestra (centro?) ha abbandonato l’Aula comunale per protesta. In un meeting a Ostrava, Yeman Crippa, azzurro di mezzofondo, trentino nato in Etiopia, stabilisce il nuovo record nazionale sui 5 mila metri e dai social gli augurano di «fare la fine di Zanardi» (che tra l’altro, grazie al cielo, sta migliorando). Luca Caprini, consigliere comunale della Lega a Ferrara, poliziotto e sindacalista, è indagato per aver messo un «mi piace» a un post su Facebook dove s’inneggiava a Hitler e ai forni crematori per attaccare il cantante Sergio Sylvestre, americano nero, colpevole di aver storpiato l’Inno di Mameli a una partita di calcio. La frase che ha attirato il suo like: «Ma quel signore con i baffi che adoperava i forni non c’è più?».

 

Si dirà: immondizia da social, sfogatoio di pessimi umori e peggiori istinti. E minimizzando, circoscrivendo, sminuendo i teppismi nazistoidi a goliardate o a esuberanze di una gioventù in cerca di un futuro più glorioso di quello che si prospetta, si diventa complici di una mutazione di cui la notte di Colleferro è una stazione non secondaria, una sirena d’allarme che fingiamo di non sentire.

In una delle interviste che ha gentilmente concesso per i suoi freschi novant’anni, Liliana Segre, senatrice a vita e vittima di Auschwitz, non minimizza: «La fine di quel ragazzo è un naufragio della civiltà». Poi ricorda in che modo nascono gli incubi della storia: «Io purtroppo ho visto come si comincia a odiare qualcuno e come si insegna a farlo, mettendo prima la persona in ridicolo, poi facendo del bullismo. E dalle parole violente, il passo successivo sono i fatti violenti, finché si arriva ad ammazzare». Gli ebrei nella Germania che sarà hitleriana erano lo 0,75 per cento della popolazione. Si riuscì a convincere i tedeschi che la causa principale dei loro problemi erano proprio gli appartenenti a quella minuscola percentuale.

Si è riacceso in questi giorni tristi, tra fiaccolate per Willy e frasi di circostanza dei leader politici, un dibattito ammuffito: l’esecuzione a calci e pugni di quel ragazzo buono è uno dei segni del ritorno di una certa mentalità fascista? Come se certificare in quale categoria storica rientri la notte della vergogna di Colleferro possa mettere qualche anima in pace. Certo, l’armamentario di tante parole seminate anche in questa campagna elettorale tende ad alimentare il fuoco sempre più ardente della rabbia, piuttosto che sopirlo. Documentatissime inchieste sul campo (Paolo Berizzi le ha concentrate nel suo ultimo libro) dimostrano come molte palestre di combattimento estremo, tipo quelle frequentate dagli arrestati per la mattanza di Willy, siano incubatrici dell’ultradestra, specie giovanile. I titoli di alcuni giornali, per esempio sull’aggressione a Salvini da parte di una donna congolese che gli ha strappato camicia e rosario, scherzano anche loro col fuoco, con la responsabile dell’ingiustificabile assalto che diventa la «nera» (meglio di «negra», se ci accontentiamo).

Si prepara un nuovo fascismo? Tanti atteggiamenti e altrettante omissioni contribuiscono, e non poco, al lievitare di un fenomeno che promette strappi violenti ai sentimenti e ai valori condivisi, almeno fino a non molto tempo fa, dal nostro Paese. Questo fenomeno si potrebbe chiamare «sfascismo», parente dell’Italia in orbace, del menefrego, della presunta (molto presunta) superiorità italica, ma con una caratteristica che le masse docili al Duce non avevano: l’infedeltà a tutto e a tutti, fuorché a se stessi, e al proprio branco. È nutrito, lo sfascismo, da una insofferenza quasi fisica a qualsiasi regola, comprese le mascherine. Si lascia riempire da parole d’ordine che semplificano, fino a brutalizzarla, la complessità del momento che il mondo vive, e l’Italia più di altri soffre. E si nutre di sogni, lo sfascismo, tutto sommato meschini: molti soldi con poca fatica, zero senso del dovere, nessuna disponibilità al passo lento del sacrificio. Sono cuori, tanti cuori pieni di niente, che andrebbero sanificati, come gli ambienti adesso che c’è il virus. Ma troppo pochi e troppo poco ci provano.

Accanto alla fotografia di Willy, provate a mettere una di quelle dei suoi presunti carnefici, con le facce feroci su corpi scolpiti, con abiti, accessori e ambienti poco compatibili con redditi guadagnati in onestà: balza all’occhio che sono due Italie che non possono comunicare e forse nemmeno coabitare. La tragedia è che la seconda sta avanzando spavalda, ma sembra che la cosa preoccupi soltanto gli incrollabili affezionati ai rudimenti della Costituzione, alla Carta dei diritti dell’uomo e della donna. Il fatto che il premier Conte partecipi ai funerali di Willy Monteiro Duarte, indossando l’ideale camicia o maglietta bianca come richiesto da suo padre Armando, ci fa sentire meno soli, appena un po’ consolati.

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