Mercoledì, 22 Aprile 2020 07:00

Il covid-19 cambierà il nostro atteggiamento verso la morte? Harari ci parla di morte. Ma solo per darci una splendida lezione di vita

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Yuval Noah Harari è  l'autore di  un classico dei nostri tempi, Sapiens: A Brief History of Humankind. Storico e filosofo, con i suoi interventi aiuta sempre a ristabilire un approccio sensato a quanto avviene intorno a noi.  Riproponiamo la lettura dell'articolo apparso sul Guardian il 20 aprile 2020 così come la sintesi riportata sulla rassegna stampa del Corriere della Sera

La pandemia, perlomeno, non cambierà il nostro atteggiamento nei confronti di quel (finora) inevitabile incontro, quello con la nostra morte. Per farlo Harari ci prende per mano per condurci, come gli è usuale, in un viaggio affascinante nel passato. Quindi, anche nel futuro. 

Anzitutto, ci ricorda che il mondo moderno è stato plasmato dalla diffusa credenza che noi piccoli umani la morte, alla fine, la freghiamo. Se prima ne eravamo soggiogati, con l'avvento delle grandi religioni (e ideologie) ci siamo persuasi che la vita è una più o meno lunga preparazione al «dopo». Che sia salvezza, o dannazione eterna, o reincarnazione - e che a deciderlo sia Dio, il Cosmo o Madre Natura - , aver dato senso al dopo ne ha restituito anche al prima, al durante, alla vita e alla sua precarietà.

Poi però è arrivata la rivoluzione scientifica. E la morte ha smesso di essere una conseguenza della volontà divina per diventare «un problema meramente tecnico» - il cuore che smette di pompare sangue, il fegato distrutto dal cancro - con risvolti metafisici del tutto trascurabili. Gli uomini hanno preso a concentrarsi su come risolvere quelle tecnicalità - un pacemaker che aiuti il cuore, radiazioni che uccidano le cellule cancerogene - e dunque a estendere il più possibile la vita, altro che usarla come anticamera della morte. 

La sfida ha avuto un certo successo. Negli ultimi 200 anni, l’aspettativa di vita è passata da meno di 40 anni a 72 su scala mondiale, e a oltre 80 nei Paesi sviluppati. Fino al XX secolo, più di un bambino su tre non raggiungeva l'età adulta, falciato da dissenteria, morbillo o vaiolo. Oggi nel mondo la mortalità infantile è sotto il 5%. 

Non ha nulla di strano dunque il fatto che le ideologie che hanno cambiato il mondo - per Harari il comunismo, il liberalismo e il femminismo - si curino poco dell'aldilà: «Che succede esattamente a un comunista dopo la morte? E a un capitalista? E a una femminista? Inutile provare a cercare una risposta negli scritti di Karl Marx, Adam Smith o Simone de Beauvoir».

L'unica ideologia moderna che si curi della morte - e la consideri un premio - è il nazionalismo, con la promessa che chi muore per la patria vivrà nella memoria collettiva. Cosa voglia dire esattamente «vivere nella memoria» nessuno l'ha mai spiegato bene. Così il miglior Woody Allen di sempre, quando hanno chiesto se sperasse di vivere per sempre nella memoria degli amanti del cinema, ha risposto che preferisce vivere nel suo appartamento. 

E qui questo pensatore formidabile (Harari, non Allen) arriva al punto. Il Covid-19 cambierà questa attitudine terrena? «Probabilmente no. Semmai il contrario». Perché l'epidemia «raddoppierà i nostri sforzi di proteggere le vite umane, senza la rassegnazione che prevaleva di fronte a simili eventi nelle società pre-moderne, quella che gli psicologi chiamano «impotenza appresa». Altro che sottomissione a quella che tante volte è stata intesa come volontà (e punizione) divina: ora in caso di catastrofe - sia un disastro ferroviario o un uragano - si rifugge dall'ineluttabile e si cercano i responsabili. Il virus non fa eccezione: l'emergenza è tutt'altro che finita ma le accuse reciproche - tra Paese e Paese o, come da noi, tra enti locali e governo centrale - già si accavallano. E parallelamente si gonfia la speranza di battere la malattia. «I nostri eroi non sono i preti che seppelliscono i morti e cercano di dare ragioni alla calamità. I nostri eroi sono i medici che salvano vite». E alla fine faranno vedere al cattivo di turno - il virus - chi comanda davvero, qual è «l’organismo alfa» di questo pianeta. Il vaccino? Questione di «quando», non di «se».

E una volta sconfitto il virus, che faremo? Con ogni probabilità investiremo di più in medici, infermieri, ventilatori e mascherine. E nella ricerca contro gli agenti patogeni che tendono a sconvolgerci la vita. I bigotti di ogni genere sono nell'angolo, e fedi e sette di ogni risma hanno chiuso i loro templi per dare (finalmente) retta agli scienziati. 

Ed ecco l'avvertimento che preme al grande pensatore. Non tutti coloro che predicano umiltà di fronte alle forze della natura sono bigotti. Gli stessi scienziati preferiscono il realismo alla fede cieca nella capacità umana di fronteggiare le calamità. L'umanità è possente nel suo insieme ma resta fragilissima sul piano individuale, condannata alla transitorietà. Così, anziché sostituire la scienza alla religione come meccanismo difensivo, quello che ci serve è un approccio equilibrato. «Dovremmo confidare nella scienza per affrontare le epidemie, ma allo stesso tempo continuare a sopportare il peso della nostra mortalità». Consapevoli di questa debolezza, erigeremo difese più forti. Come, però? Quali difese? I governi faranno benissimo a spendere di più nella sanità, perché il loro compito non è fare filosofia. Le facoltà di medicina avranno più fondi, i dipartimenti di filosofia probabilmente meno. Toccherà quindi agli individui, alle persone, «fare filosofia», pensare. «I dottori non possono risolvere i dilemmi dell'esistenza per noi. Ma possono darci più tempo per pensarci. Sta a noi decidere cosa fare di quel tempo». Bellissimo, vero?
 
Questo il link per leggere l'articolo sul Guardian
 
Ultima modifica il Mercoledì, 22 Aprile 2020 07:48
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