Venerdì, 20 Marzo 2020 06:43

La Chiesa di fronte all'epidemia: chiese chiuse o aperte?

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E' vivo, sottotraccia, il dibattito su come affrontare un'epidemia da cristiani. Tentiamo almeno di chiarire i termini della questione con due interventi diametralmente opposti: la posizione del prof Tognol sul sito della Cei  e quella di Enzo Bianchi sul quotidiano La Repubblica

In ogni situazione siamo sempre chiamati a scegliere. E ogni scelta inevitabilmente significa anche rinunciare a qualcosa che non sempre è male. E' doloroso scegliere, ma inevitabile. Il problema è non scegliere, rimanere a guardare.

In questi giorni in tanti si interrogano sulla scelta della Chiesa italiana di tenere le chiese aperte limitando però l'accesso ai sacramenti. Indubbiamente dietro ogni presa di posizione c'è la visione di chiesa che ognuno (anche il non credente) ha. Così come in fondo viene ad evidenziarsi lo spessore della fede intesa non come adesione a dei principi ma come relazione con il Signore.

Prima di proporre la lettura di due articoli apparsi rispettivamente sul sito della Conferenza Episcopale Italiana e sul quotidiano la Repubblica del 16 marzo, vorrei richiamare due dimensioni che mi interrogano.

La prima è l'affermazione di Gesù nel Cenacolo poco prima della passione, quando i discepoli -incoscienti- stanno a discutere su chi avrebbe preso il primo posto. Ebbene Gesù afferma solennemente: Voi siete coloro che avete perseverato con me nelle mie prove". Nelle prove si sta, stando con il Signore. Altra scelta non è consentita. Come tradurre in tempo di coronavirus questo che per noi è Vangelo?

La seconda è una pagina di un'opera "antica", La lettera a Diogneto. Ne riporto semplicemente il testo dei capitoli V e VI:

“I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio.
 
 
A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare”.

 Quale "il posto" che mi è stato assegnato e che non mi è lecito abbandonare? Cosa salva il mondo?

Sono interrogativi che interpellano la coscienza di ognuno di noi.

Rimando agli articoli menzionati.

In tempo di coronavirus. I cattolici sono cittadini italiani. La Chiesa è al servizio di tutti

Oggi si è chiamati solo a rinunciare a qualche cosa, che ci verrà restituito in abbondanza domani: è un sacrifico che anche i cattolici devono fare con dignità e intelligenza.

Anche il Papa cammina da solo per Roma. Le chiese sono aperte nella capitale, ma si entra uno per uno, nel rispetto della salute pubblica che è anche rispetto del dono della propria salute. E come se il Signore ci chiamasse uno per uno e non in massa.

La Chiesa è come la nostra coscienza: non può entrarvi nessun altro. Hai voglia a gridare, ad agitarti, a fuggire: siamo soli, nati soli e moriremo soli. Oggi queste parole ci fanno paura. Suonano strane, eppure sono parte della grande saggezza cristiana che ha sempre amato le comunità ma che ha sempre professato la singolarità della fede, unica e comunque sempre personale.

Si leggono articoli di uomini di Chiesa o di intellettuali, che hanno fatto del loro parlare della Chiesa e sulla Chiesa la loro professione, che invocano il potere della preghiera contro il virus, richiamano l’indipendenza della Chiesa dal potere dello Stato, argomentano sul fatto che non si può sospendere l’Eucaristia, che la fede chiede che sempre e comunque si impartiscano i sacramenti. Si domandano dove è la Chiesa d’Italia, perché non faccia la Chiesa.

Ma che cosa vuol dire oggi “fare la Chiesa”?

Chiediamocelo. Non c’è nessuna paura ad affermare che oggi, in questa epidemia, comandino la scienza, la tecnologia e la politica. Perché loro possono guarire o trovare soluzioni razionali per tutti o per la maggior parte. Perché hanno alle spalle regole e certezze, perché parlano con l’autorità della Costituzione. Perché a loro, alla scienza e alla politica possiamo chiedere conto di ciò che fanno davanti a tutti. Mai come in queste circostanze il potere della fede e del clero si aggiunge e non può sostituirsi al potere civile. È così e talvolta non è un male. Il futuro del cattolicesimo passerà anche da una chiara presa di coscienza di essere dentro la complessità della vita contemporanea, non a parte.

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(Foto: Siciliani-Gennari/Cei)

Quelli che si leggono sono ragionamenti doppiamente strani. Innanzitutto perché non mostrano sufficiente preoccupazione per ciò a cui potrebbero andare incontro il clero, i volontari, le persone più generose nell’attraversare le soglie di case, istituti, ricoveri, carceri, nel dare la comunione. Anche la carità, che è viva e generosa, dovrà adattarsi, dovrà trovare forme nuove. Chi scrive di una Chiesa che è scomparsa non dice che il virus non rispetta l’abito talare. Chi invoca processioni, liturgie, celebrazioni non sottopone il proprio ragionamento ad una semplice domanda: come fare per rispettare ciò che ci è chiesto per il bene comune? Vi sono dettagli pratici che vengono considerati secondari e che invece sono decisivi per salvare una vita.

Vi è poi un secondo motivo più serio da sottoporre a chi invoca decisione autonome della Chiesa:

i credenti sono prima di tutto cittadini responsabili.

Possono davvero permettersi di agire diversamente e magari mettere in pericolo gli altri? Non è forse un segno di grande misericordia se i fedeli rinunciano a qualche cosa di importante per la loro fede, al servizio del bene comune della nazione? Gli edifici religiosi possono aspettare perché la vita deve essere sempre tutelata e perché la fede non si ferma di fronte a chiese chiuse.

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(Foto: Siciliani-Gennari/Cei)

Non si sa come finirà la pandemia: si sa che ci saranno migliaia di morti, i più deboli e magari i più cari e i più buoni. Il virus non persegue finalità moralistiche e dunque va combattuto per quello che è: un avversario a cui rispondere con le armi dell’intelligenza, della competenza, del rispetto delle norme. Invece si sente bollire nel profondo di certi ambienti un sentimento premoderno di contrapposizione tra scienza e fede che non ha senso. Il problema è quello della competenza e di una scienza ispirata al valore dell’umanità. Bisogna essere chiari: la conoscenza scientifica e la collaborazione tra competenze diverse sono le vere armi e se lo Stato e i cittadini, in questa emergenza, riscoprono il valore della verità, anche di quelle non assolute, sarà un bene per tutti e un esempio per i ragazzi.

Inoltre, chi ha studiato la storia sa che l’umanità, anche l’Italia, ha patito sventure terribili e che il modo con cui vengono raccontate cambia spesso il loro volto e le rende meno terribili, anche se mai accettabili.

La scrittura, la parola, la comunicazione sono parte importante del problema ma anche della sua soluzione.

Se, ad esempio, si rilegge con attenzione Manzoni si vedrà che egli raccontava la storia della peste non per maledire o terrorizzare ma per mostrare come la stupidità umana poteva fare danni anche nelle tragedie.

Oggi si è chiamati solo a rinunciare a qualche cosa, che ci verrà restituito in abbondanza domani: è un sacrifico che anche i cattolici devono fare con dignità e intelligenza.

Ritrovarsi oggi in un Paese chiuso, disciplinato, resistente, affidato a governanti con tanti limiti ma certamente almeno in questo caso operosi, è una consolazione. E se il linguaggio ufficiale della Conferenza episcopale, nei suoi documenti e nelle sue avvertenze, è preciso, umile, rispettoso dei decreti, attento alle nuove regole generali, è un bene: significa che i suoi vertici stanno lavorando fianco a fianco con chi governa e che rappresentano la Chiesa italiana nelle sedi politiche che oggi devono decidere della vita di tutti.

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(Foto: Siciliani-Gennari/Cei)

Anche i preti e le suore sono cittadini italiani e condividono con i loro fedeli la medesima condizione. Inventeremo nuove forme di assistenza e di pietà, ma prima di tutto saremo uniti di fronte alla nostra coscienza, la nostra prima chiesa. E a chi mastica di teologia, basta ricordare di andare a leggere le pagine di grandi uomini di fede e di Chiesa dei secoli scorsi, addirittura del Seicento: c’era la peste in Europa, ma c’era anche chi si chiedeva che senso avesse la cosiddetta “frequente comunione”. Non erano atei, ed anzi pagavano duramente la loro indipendenza spirituale dai poteri dei sovrani: erano soltanto uomini che avevano una così alta idea del Signore che non si sentivano degni di accoglierlo troppo spesso, per abitudine.

Giuseppe Tognon

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ndr: un articolo simile  è apparso su L'Osservatore Romano a firma di Francesco Cosentino

 

Il secondo articolo è apparso su La Repubblica del 16 marzo a firma di Enzo Bianchi

Coronavirus: la Chiesa non può chiudere

In questi ultimi giorni siamo testimoni dell’epidemia di coronavirus ma siamo anche travolti dall’epidemia della paura. E in questa condizione faticosa e buia sembra essere travolta anche la Chiesa.

Nessuna polemica da parte mia, nessuna certezza, ma molte domande. L’ho scritto fin dall’inizio di questa emergenza: siamo sicuri che la Chiesa, adottando contro il possibile contagio misure che impediscono liturgie, preghiere e funerali partecipati dalla comunità, sia solidale con chi soffre, ha paura e cerca consolazione?

Rincresce constatare come la Chiesa non sia capace di una parola umile, senza pretese, ma chiara. Abbiamo ricevuto disposizioni ecclesiastiche sull’emergenza, equiparate alla disciplina imposta dall’autorità politica, nelle quali non s’intravede la presenza di preoccupazioni pastorali e cristiane dettate dal Vangelo: compassione, urgenza della cura e della vicinanza ai malati e alle persone in condizione di fragilità, messaggio della speranza per chi è vittima di questa pestilenza. Ci si è limitati alla richiesta di sospendere le celebrazioni, offrire un’eucaristia celebrata in privato, interrompere la celebrazione dei funerali. Ma la virtualizzazione della liturgia significa morte della liturgia cristiana, che è sempre incontro di corpi e di realtà materiali.

Mi è dunque venuto spontaneo domandarmi: ma è veramente morto il prossimo? Anche noi cristiani non sappiamo più cosa è necessario alla nostra vita e cosa è superfluo? Poi finalmente papa Francesco ha detto alcune parole che sembrano aver risvegliato le coscienze: occorre tenere aperte le chiese, accompagnare i malati, andare a visitarli, far risplendere la speranza della vita dove la morte fa le sue incursioni, occorre che la Chiesa assuma la postura di Chiesa in preghiera.

E non ci si può certo consolare constatando che le preoccupazioni della società sono altre: gli eventi sportivi, l’aperitivo, la movida... Un cristiano avrebbe obiezioni da fare di fronte ai vari atteggiamenti che si manifestano in questa emergenza, soprattutto riguardo alla liturgia eucaristica, che deve sempre essere azione di tutta la comunità, senza surrogati che smentiscono la realtà umana del corpo di Cristo che è la comunità e la realtà sacramentale del corpo di Cristo nel pane e nel vino.

È vero che si può pregare in casa, nel segreto — come chiede anche Gesù —, ma senza eucaristia domenicale per i cristiani non è possibile vivere. Chi si ammala e va verso la morte ha bisogno dei sacramenti, della consolazione cristiana, di vivere la speranza della resurrezione con i fratelli e le sorelle, senza sentirsi abbandonato. Se la Chiesa non sa essere presente alla nascita e alla morte delle persone, come potrà mai esserlo nella loro vita? Pastori senza pecore e pecore senza pastori? Pastori salariati meno disposti alla cura dei fedeli e dei loro bisogni spirituali rispetto a medici e infermieri del corpo? Per grazia conosco preti che non abbandonano le pecore malate, anzi le vanno a cercare e a curare affinché vivano in pienezza.

Enzo Bianchi

 

Su La stampa del 20 marzo Enzo Bianchi ritorna sul temacon un articolo su: La forza della carità cristiana

In questo tempo di coronavirus si è aperto un acceso dibattito fra pastori, teologi e fedeli sull'alternativa tra chiese aperte o chiese chiuse, partecipazione alla messa o digiuno eucaristico.
Non manca qualche intervento polemico, intollerante verso il parere degli altri e addirittura sarcastico, ma meglio non tenerne conto. In particolare, ciò è avvenuto dopo che Francesco ha richiamato tutta la chiesa a non disertare ma a esercitare una carità compassionevole e creativa verso i malati, i morenti e verso le persone anziane, sole e fragili. Il Papa ha avuto anche l'audacia di dire ad alta voce che «le misure drastiche non sempre sono buone». Non per mancare della virtù della prudenza, ma per risvegliare l'intelligenza della carità e per indicare ai cristiani che, soprattutto in ore cattive come queste dell'epidemia, occorre vivere il comandamento dell'amore del prossimo.
Quanto alla celebrazione della liturgia eucaristica, nessuna posizione miracolistica né di arrogante certezza e tantomeno di intransigentismo cattolico. Non siamo più in epoche nelle quali la peste era sentita come un giusto castigo di Dio per le infedeltà degli umani, né pensiamo che vi siano recinti o realtà sacre esenti dall'essere portatrici di contagio, e non siamo neanche inclini ad affermare il legalismo del precetto. Dunque, si devono certamente evitare celebrazioni liturgiche con assembramenti di gente e, al riguardo, occorre rispettare le precauzioni prescritte dall'autorità civile.
I miei dubbi non riguardano queste dovute osservanze ma piuttosto le poco meditate modalità con cui si offrono surrogati come le messe private, quelle solitarie, quelle trasmesse attraverso le più svariate forme che il web offre. Per la chiesa cattolica, infatti, il sacramento non è mai virtuale, ma va vissuto nella sua realtà, e l'eucaristia va vissuta come cena del Signore celebrata da una comunità. L'eucaristia è un evento in cui insieme si mangia e si beve, cioè si assimila, il corpo del Signore, dopo aver insieme ascoltato la Parola, diventando così il corpo ecclesiale di Cristo. Se è vero che non c'è chiesa senza eucaristia, è altrettanto vero che non c'è eucaristia senza chiesa. Come ha detto con semplicità ma acutezza il vescovo di Milano, «altro è mangiare il pane, altro è guardarlo in una fotografia». I malati e i morenti hanno bisogno del corpo di Cristo, devono poter lasciare questa terra nella speranza della vita eterna e con i segni di una carità che non viene meno. I fedeli hanno il diritto di essere nutriti dai sacramenti e di poter morire con quei conforti che la chiesa ha sempre loro proposto come salvifici. Se si sta per un certo tempo senza eucaristia, occorre avere consapevolezza di questa privazione, di un digiuno che non può essere alleviato da surrogati.
C'è sempre la preghiera, in particolare c'è la lettura della Scrittura che contiene la parola di Dio, ma la mancata partecipazione all'eucaristia deve essere sentita dai cristiani come una prova che li pone in attesa di poterla celebrare di nuovo, quale viatico necessario nel cammino verso il Regno. Certo, un monaco lo sa bene, San Benedetto come tanti eremiti del deserto, visse per anni senza eucaristia e senza celebrare la Pasqua, ma i bisogni della fede dei credenti sono diversi, appunto "secondo il grado della fede di ciascuno", direbbe l'apostolo Paolo.
È significativo che questa urgenza da me invocata fin dall'inizio della crisi sia stata manifestata da un vescovo come Mariano Crociata, da presbiteri come padre Sorge e don Massimo Naro, da un teologo come Ruggieri, da laici come Riccardi, Stefani, Melloni, Faggioli, Cardini e da tanti altri.
Più che mai in questi giorni emerge la testimonianza di pastori che amano la loro comunità e per essa svolgono il loro servizio con abnegazione e con la gratuità del Vangelo. Ed è significativo che tra i morti vi siano anche tanti presbiteri, come nella diocesi di Bergamo: pastori in mezzo al loro gregge. «In casi di malattia grave, la presenza del sacerdote diventa un balsamo importante» ha scritto il vescovo di Gozo. In questa direzione si orientano anche gli opportuni suggerimenti per la celebrazione dei sacramenti in tempo di emergenza Covid-19 indicati dalla Segreteria generale della Cei, suggerimenti veramente ispirati dal Vangelo e da una intelligente sollecitudine pastorale. Né chiese chiuse, né assembramenti ecclesiali o liturgici, ma un operare sempre secondo i sentimenti di Cristo Gesù, senza che nell'economia sacramentale, siano privilegiati alcuni ed esclusi altri.
L'appello del Papa è stato dunque un mettere in guardia tutta la chiesa dalla sonnolenza spirituale, dall'appiattimento della sua disciplina su quella dell'autorità politica e, a mio parere, da una debolezza della fede che diventa tentazione per tutti noi quando la strada si fa difficile, oscura, nel deserto della sofferenza e della prova. Tenere le chiese aperte significa non chiudere le porte a chi, osservando le precauzioni, vuole entrare in esse a pregare, a trovare conforto nella fede, ma significa anche invitare a intercedere davanti a Dio e a stare vicini a tutti quelli che sono vittime dell'epidemia in modi diversi.
In sintesi, in una situazione temporanea di grave emergenza e pericolo di vita la comunità cristiana si trova nelle condizioni di non potersi riunire per celebrare l'eucaristia. I credenti nutrono la loro fede pregando la liturgia delle ore, nell'ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture e nella lectio divina, in una forma di digiuno eucaristico. Tuttavia, come indicano le normative pubblicate dalla Cei, in condizioni di necessità e infermità non possono essere negati a nessuno i sacramenti.
Ultima modifica il Martedì, 24 Marzo 2020 09:56
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