Domenica, 15 Marzo 2020 08:20

Non dimenticare il deserto!

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Un grande biblista,  il gesuita p. Pietro Bovati, s.j. commentando il cap 8 del Deuteronomio in un libro ormai esaurito del 1994  ci offre spunti per la comprensione credente anche del momento storico che stiamo vivendo. E' un testo offerto alla sincera e appassionata ricerca di senso di quanti non si arrendono sotto il peso di domande scomode.

NON DIMENTICARE IL DESERTO

(Deuteronomio 8, 1_20)

La storia delle origini di Israele è spesso riassunta dalla Scrittura stessa mediante due verbi di movimento, che esprimono la tappa iniziale e finale di un processo redentivo: il Signore ha fatto-uscire il suo popolo dall'Egitto, dalla casa di schiavitù, e lo ha fatto-entrare nella terra promessa ai padri. I verbi vengono per lo più usati alla forma causativa (far uscire, far entrare) per esplicitare che è JHWH la causa della salvezza di Israele.

C'è allora il rischio di dimenticare che tra questi due momenti, brevi e quasi puntuali, si frappone un periodo assai lungo, rappresentato dal cammino nel deserto durato quarant'anni. La particolarità di questo tempo intermedio è quella di non essere apparentemente un'esperienza positiva. La Scrittura, anche in questo caso, utilizza un verbo di movimento, sempre alla forma causativa: il Signore ha fatto andare Israele nel deserto, e ciò costituisce un ulteriore problema: non si vede infatti perché la storia della salvezza debba comportare l'attraversamento del luogo della solitudine, dell'aridità e della morte; e soprattutto non si capisce perché sia proprio Dio la causa di questo improbo cammino.

Il deserto è un luogo reale, appartenente alla geografia storica di Israele. Ma nelle tradizioni religiose di questo popolo esso assume una chiara valenza simbolica, e sta a designare la stessa esperienza umana di sofferenza e di morte. Il deserto per questa ragione e un luogo enigmatico, che non può non suscitare in tutti l'interrogativo: perché JHWH ha voluto condurre Israele nella landa desolata della morte? Domanda questa che si sovrappone a quella che ogni persona si pone sul senso del dolore, e sul perché della caducità di ogni individuo.

Saggezza popolare e ricerca filosofica, nei loro racconti, miti e dottrine, hanno da sempre cercato di fornire delle ragioni al problema dell'umana sofferenza, sforzandosi come possono di trovare un senso per la vita mortale. Il divino, in un modo o nell'altro, viene abitualmente implicato in queste riflessioni. La storia delle idee mostra comunque che non ci sono spiegazioni facili, né teorie universalmente riconosciute. Anche in Israele, specie negli scritti sapienziali, troviamo gli echi di tale travagliata problematica; basti pensare alle posizioni scettiche di Qohelet e alla violenta polemica di Giobbe contro le dottrine tradizionali sulla retribuzione per rendersi conto che il problema del male sofferto dall'uomo rimane un vero problema anche per la coscienza religiosa di Israele.

Per il popolo di Dio l'esperienza storica dell'esilio (specie quello susseguente alla caduta di Gerusalemme nel 587), a motivo della perdita della terra e per la morte di una gran parte della popolazione, fu vista come un ritorno al periodo del deserto. Deserto, esilio e umana sofferenza tendono così a sovrapporsi; il deserto è come un simbolo di tutte le vicende dolorose che possono toccare la carne dell'uomo. Per questo ogni domanda sul senso della sofferenza può sentirsi rappresentata da quella che chiede il perché della traversata della «terra arida e tenebrosa» (Ger 2, 6).

Anche il Deuteronomio, fra tante voci, interviene per offrire alcune linee di intelligenza del perché del deserto. Non fa una teoria; evoca solo dei ricordi, suggerisce qualche spunto di riflessione. I redattori e i diffusori di questo libro hanno senz'altro presente la situazione di Israeliti che vivono senza il possesso della terra; possiamo immaginare che i primi destinatari di quest'opera letteraria siano le dieci tribù del nord spodestate dalla dominazione assira; in epoca successiva, il libro viene indirizzato anche ai Giudei che hanno visto la caduta di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi. Nei due casi, l'esilio e il suo perdurare vengono interpretati alla luce dell'esperienza fatta dal popolo al momento delle sue origini. Mosè è una guida sapienziale e profetica; parlando dei padri spiega anche il senso dell'esperienza futura dei figli.

Come ogni sapiente e come ogni profeta Mosè evoca il "deserto" quale luogo di rivelazione di una verità difficile, ma essenziale. Il suo discorso, oltre a venire incontro alla domanda degli antichi Israeliti, può aiutare anche il credente attuale che cerca una parola giusta sul perché i padri hanno dovuto camminare nel deserto per giungere alla patria, sul perché il figlio dell'uomo debba soffrire per entrare nella gloria.

[8.1] Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi dò, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso del paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. [8.2] Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. [8.3] Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. [8.4] Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. [8.5] Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te.

In tutto il capitolo 8, il tema del deserto (w. 2_5.15_16) è collegato con l'imperativo di "ricordare" (o "non dimenticare") (vv. 2.11.14.18.19). Naturalmente, non si tratta di una semplice evocazione dell'evento passato, ma dell'atto spirituale che custodisce un evento nella memoria perché ne capisce il significato e ad esso acconsente.

Deserto e punizione

Il v. 1 dice che osservando i comandamenti Israele potrà vivere ed entrare in possesso della terra promessa. Indirettamente ma chiaramente, la parola di Mosè fa intendere che, se non si pratica la legge, il popolo morirà lontano dalla terra, nel deserto, di cui parla appunto il versetto immediatamente seguente (v. 2).

Commentando il capitolo 1 (1, 19ss.), abbiamo mostrato come per il Deuteronomio i quarant'anni nel deserto sono la conseguenza della ribellione di Israele all'ordine del Signore di salire a prendere possesso del paese. Anche le altre tradizioni letterarie che parlano dell'Esodo, in modo unanime, interpretano la storia susseguente alla traversata del mare applicando sistematicamente lo schema giuridico per cui al peccato deve necessariamente seguire una sanzione. Il deserto è la condanna "tipica" del peccato di ribellione, in quanto significa l'allontanamento dal luogo della vita e l'esposizione del colpevole alla morte; per questa ragione noi lo vediamo apparire nei testi fondatori della storia di Israele (al suo inizio, nel libro dell'Esodo, e alla sua conclusione, nel libro del Deuteronomio), ed altresì nei racconti dell'origine dell'umanità, quale castigo inflitto per la disobbedienza di Adamo ed Eva, cacciati dal giardino dell'Eden.

Tutti noi accettiamo come ragionevole che un reato venga sanzionato da una punizione proporzionata; e ognuno potrebbe quindi ritenersi soddisfatto dalla constatazione che Israele è "morto" nel deserto perché ha gravemente peccato contro Dio. Ma se la storia degli Ebrei è presa come "figura" della storia dell'uomo, tale affermazione appare assai discutibile. Un rapporto troppo stretto e troppo automatico tra peccato e punizione induce un'interpretazione falsata e ingiusta di tante sofferenze umane: di fronte a una malattia o alla stessa morte, il supporre che necessariamente qualcuno debba aver peccato o lui o i suoi genitori (cf. Gv 9, 2) è una lettura dei fatti inadeguata, insoddisfacente. D'altra parte, l'esperienza comune attesta che Dio non interviene sempre in tempo utile a punire i colpevoli: il prosperare dei malvagi e il martirio degli innocenti sembrano contraddire una teodicea che attribuisce a Dio il compito universale di giudice giusto esercitato nella storia visibile dell'umanità. Infine, soprattutto in una prospettiva evangelica, ma seguendo anche i tanti suggerimenti che vengono dall'Antico Testamento, il Signore non è solo il Dio giusto che punisce le trasgressioni: egli si rivela anzi come il Dio «misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34, 6_7). Come capire l'amore del Signore e il suo perdono nella condanna del deserto, nel quale tutti muoiono (Dt 1, 35)?

Certo, è doveroso ribadire immediatamente che il rapporto di causalità tra peccato e punizione non costituisce una spiegazione sufficiente al problema della sofferenza e della morte. Tuttavia, è pure necessario insistere sul fatto che la punizione è una delle modalità di giustizia atte a rivelare la natura malvagia dell'atto commesso. Il "deserto", da questo punto di vista, ha la funzione di denunciare la radicale colpevolezza dell'uomo, la sua "originaria" ribellione. Se si rifiuta Dio, si rifiuta la vita, è chiaro allora che alla disobbedienza faccia seguito la morte, quale intrinseca conseguenza del male voluto e perpetrato. Chi abbandona Dio va verso l'isolamento, la disperazione, la perdita delle proprie risorse vitali: come il figlio "prodigo" (sarebbe meglio dire il figlio "ribelle") che, allontanatosi dalla casa patema, finisce fatalmente in un paese di carestia, dove si muore di fame (Lc 15, 14_17).

Di fronte a casi di grande sofferenza e persino di fronte alla mortalità che è condizione "naturale" dell'umana creatura, nessuno si sente di dire che Dio ha decretato un provvedimento punitivo proporzionato al crimine commesso. Si crede di poter dire che il Signore ha "permesso" una simile sciagura, evitando accuratamente di dire che egli l'ha "voluta". Ma francamente è difficile accontentarsi di simili sottigliezze linguistiche; e ci si può chiedere se l'immagine di Dio venga realmente salvata da una tale distinzione. Se la sofferenza mortale è un male, Dio non solo non può volerla, ma non può nemmeno permetterla; se Dio è Dio, egli non deve assolutamente lasciare che il male trionfi, se non vuole esserne connivente.

La vera questione è un'altra: è proprio vero che il "deserto" sia un male? Il passaggio attraverso la terra di morte è certamente una punizione, ma la punizione ha lo scopo di toccare il cuore, di indurre a riflessione così da convertire l'uomo al bene (cf. Dt 4 29_30). Il deserto non è un male; è la "medicina" amara che serve per debellare la vera malattia mortale che è il rifiuto della vita che è il peccato originale dell'uomo. Se non si accetta il deserto significa che non si è capito e riconosciuto il male del proprio cuore e la necessità della conversione.

Il deserto come prova

Il testo di Dt 8, 2_6 sopra citato sviluppa più direttamente un altro aspetto interpretativo del cammino nel deserto: esso è una "prova". In questo caso non si fa più riferimento alla colpa, e non si usa più la categoria giudiziaria della punizione; l'ambito è invece quello sapienziale, e viene data una precisa finalità positiva all'esperienza vissuta da Israele. L'esperienza pur difficile e rischiosa è paragonata a un "esame", che, proprio a motivo della sua difficoltà, esalta le qualità di colui che vi si sottomette; serve così al candidato stesso per mostrare il suo valore, ed è necessario al maestro ed esaminatore per "approvare" e confermare il discepolo.

In altre tradizioni bibliche, oltre al Deuteronomio, troviamo utilizzata questa categoria per qualificare il momento difficile attraversato dall'uomo giusto. Domandando ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, Dio, dice la Scrittura, «lo mise alla prova» (Gn 22, 1); qualcosa di analogo vale per le ripetute sventure che si abbatterono sulla casa e sulla persona stessa di Giobbe (Gb 1_2), per la cecità che colpì Tobi (Tb 2, 10), per la persecuzione e la morte stessa del "giusto" (Sap 3, 5_6; cf. anche Sal 119, 75). Ed anche l'esperienza dell'esilio di Israele viene letta in questa prospettiva:

«Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai passati al crogiuolo, come l'argento. Ci hai fatti cadere in un agguato, hai messo un peso ai nostri fianchi. Hai fatto cavalcare uomini sulle nostre teste; ci hai fatto passare per il fuoco e l'acqua, ma poi ci hai dato sollievo» (Sal66, 10_12).

Per quanto riguarda il periodo del "deserto", l'esperienza della sete fatta dal popolo quando si imbatté nelle sorgenti salmastre di Mara (Es 15, 25; Dt 33, 8; Sal 81, 8), e l'esperienza della fame saziata dal solo nutrimento monotono e razionato della manna (Es 16, 4), vengono interpretate come un progetto divino di vagliare le qualità di Israele.

Anche in Dt 8, 2_3 l'esperienza del deserto viene definita una prova, e una prova umiliante. Si tratta, in primo luogo, della umiliazione della fame (v. 3), che consiste nel sentire corporalmente il senso di debolezza, di miseria impotente di fronte all'approssimarsi della morte. E, in secondo luogo, dell'umiliazione della manna, del fatto cioè che un altro, Dio, dispensa dall'alto un cibo che l'uomo può solo ricevere. Ne viene che una persona "adulta" diventa come un bambino, il quale deve essere nutrito dai genitori perché non è in grado di provvedere da solo alla propria sussistenza.

Questa miseria esperimentata da Israele è un esame di obbedienza e di fiducia in Dio. Privato del pane, l'uomo è infatti privato del frutto del suo lavoro: I'opera delle sue mani, nel deserto, è inutile, poiché il suo operare non è in grado di far uscire dalla terra il cibo necessario per la vita. Nel deserto la "mano" dell'uomo è forzatamente inoperosa, sterile, inefficace, è la "bocca" che egli deve spalancare per ricevere il dono dalla mano di Dio: «Sono io il Signore tuo Dio, che ti ho fatto salire dal paese d'Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 81, 11).

Ci sono dei momenti della nostra esistenza nei quali non si può fare nulla, momenti nei quali lo sforzo non serve, e porta solo agitazione e svuotamento. Sono momenti che simbolicamente annunciano l'attimo stesso della morte, nel quale avviene l'abbandono definitivo di ogni umana attività, e tutto è rimesso unicamente al sorgivo desiderio di vita che sgorga dal Padre. Simile a una entrata nella morte, il deserto è una esperienza di debolezza, e come tale è appello alla fiducia nell'Origine della vita. Privato del pane, privato dei mezzi umani, l'uomo potrà forse capire che ciò che fa vivere non è il pane, frutto della terra e del suo faticoso lavoro; ciò che è vivificante è invece il rapporto di dipendenza dal Signore, è l'accettazione della sua parola

Nella celebre frase di Dt 8, 3 «non di solo pane vive l'uomo ecc.» _ ripresa anche nel Vangelo a proposito delle prove o "tentazioni" di Gesù (Mt 4, 4; Lc 4, 4) _ si può vedere la risposta a una domanda di tipo sapienziale, risposta che, come spesso avviene nelle tradizioni bibliche, può a sua volta essere presentata in forma enigmatica. La domanda sarebbe: «Che cosa fa vivere l'uomo?». E, volendo adottare lo stile dell'epoca, qualche saggio potrebbe rispondere, appoggiandosi sull'evidenza: «Ciò che esce dalla terra ed entra nella bocca dell'uomo», intendendo con questo il pane. E noto infatti che ancora oggi gli Ebrei benedicono la mensa dicendo: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio re dell'universo, che fai uscire il pane dalla terra».

Ma il Deuteronomio ha un'altra risposta di saggezza, che in certo senso capovolge la prospettiva. Invita anzitutto a ricordare la manna, il cibo che è in se stesso un interrogativo: la parola "manna" infatti viene dalla domanda che gli Ebrei si erano posti quando videro che «sulla superficie del deserto c'era una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra» e «si dissero l'un l'altro: "Mah hu: che cos'è?", perché non sapevano che cosa fosse» (Es 16, 14_15). Israele è dunque stato nutrito con un cibo "sconosciuto" sia alla generazione presente che a quella passata (v. 3), perché la manna è un «pane che piove dal cielo” (Es 16, 4) invece di uscire dalla terra.

Ma la manna è solo un segno di ciò che fa vivere l'uomo veramente. Mosè dice a Israele: comprende il significato della manna colui che riconosce che l'uomo vive non di pane (di ciò che esce dalla terra ed entra nella bocca dell'uomo), ma piuttosto della parola del Signore, di ciò «che esce dalla bocca di Dio» (che viene dal cielo) per entrare là dove l'uomo può accoglierlo, nell’orecchio e nel cuore.

Ora, finché l'uomo si nutre del pane, non potrà evidenziarsi, e l'uomo mai capirà che non è il pane a dargli la vita. E quindi solo nella privazione (del nutrimento conosciuto) che l'uomo può capire che, obbedendo, egli vive... anche senza pane, perché, per miracolo, è nutrito da un cibo celeste, misterioso, divino.

Il deserto infatti è un luogo paradossale. E una distesa arida, «terra assetata e senz'acqua» (v. 5), perché non vi cadono piogge e non esistono fiumi; eppure l'acqua scaturisce dal]a roccia più dura, e disseta le persone e i greggi (v. 15). E una landa desolata, dove è impensabile seminare (Ger 2, 2); eppure vi si può mangiare ogni giorno delle focacce di manna con il gusto di pasta all'olio (Nm 11, 8) o, secondo altri, con il sapore di miele (Es 16, 31). Il deserto è «luogo di serpenti velenosi e di scorpioni» (v. 15), una «terra che nessuno attraversa e dove nessuno dimora» (Ger 2, 6), ambiente ostile e mortale; malgrado questo, anzi in tutto questo il popolo continua a vivere e a camminare. Dio lo fa camminare.

Certi travagliati periodi dell'umana esistenza, in modo particolare, possono essere visti come il miracoloso sopravvento del vivere in circostanze impossibili. L'intero ciclo dei giorni concessi all'uomo, a ben vedere, riproduce questa medesima esperienza. Là dove non ci sono adeguati mezzi a disposizione, nella povertà e indigenza, nella umiliazione dell'impotenza, Dio si fa presente con dei segni modesti, ma efficaci. Il cibo "quotidiano" della manna, la giusta razione data giorno per giorno (Es 16, 4), è uno di questi segni, come lo è l'acqua che disseta dalla roccia, che, secondo la tradizione ebraica, accompagnava Israele nel suo lungo pellegrinare, simbolo in realtà del suo Signore che non cessava di rinvigorire il suo popolo (cf. 1 Cor 10, 4). E un segno della presenza di Dio anche il prodigio del vestito che non Si consuma, e dei piedi che non si gonfiano durante il penoso cammino (v. 4; e 29, 4). JHWH riveste così colui che deve affrontare il rischio della morte, allo stesso modo che aveva preparato delle tuniche di pelli per l'uomo e la donna allontanati dal giardino dell'Eden (Gn 3, 21). Il non logorarsi del vestito è un simbolo: significa che la vita perdura (cf. Sal 102, 27), come se Dio ridesse continuamente vigore alla trama mortale della carne dell'uomo. JHWH rende forte il corpo dell'uomo, solidifica i suoi piedi, perché possa continuare a marciare, e, camminando, calpesti i serpenti e gli scorpioni che insidiano il suo tallone (Sal91, 13; Lc 10, 19).

Il deserto allora è sì una prova per l'uomo, perché questi è privato di risorse proprie ed è umiliato dal sentirsi bambino. Ma è una prova confortata dalla presenza (invisibile) del Padre che provvede alle necessità del figlio, con amorosa discrezione. Come avvene per Elia, provato dalla persecuzione e in preda alla disperata voglia di morire, al quale fu inviato un angelo per mostrargli una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua (1 Re 19, 6): il profeta deve dapprima aprire gli occhi, strappandosi alla sua sonnolenza che è sintomo di rifiuto, per vedere il nutrimento offerto; e poi deve mangiare, deve cioè accettare e appropriarsi del piccolo segno di Dio, che ha però l'energia di far camminare per quaranta giorni e quaranta notti fino all'incontro con il Signore stesso (1 Re 19, 8).

La prova (della vita) consiste dunque in una situazione di oscurità, di precarietà, di pericolo; ma, nello stesso tempo, vengono dati a colui che è nella prova i mezzi semplici per superare la difficoltà. La prova non è comunque un disagio leggero o momentaneo; essa tocca il concetto stesso del vivere, riguarda il senso della vita umana. Si può veramente chiamare vita la mia, direbbe Abramo, se non ho figli, e tutti i miei beni verranno ereditati da un servo di casa? (Gn 15, 2_3). E sensato, direbbe ancora, esser privato del figlio unico, tanto atteso e amato, per essere obbedienti al comando di Dio? (Gn 22, lss.). Non è forse vero, in altre parole, che si deve porre un'assoluta identità tra il vivere autentico e l'essere padre? Guarda le stelle del cielo, nella notte, dice Dio ad Abramo (Gn 15, 5). Anche nella tenebra brilla una luce lontana, che è il segno profetico dei figli numerosissimi che verranno concessi alla carne impotente dell'uomo. Guarda il segno, e credi, dice il Signore. Abramo credette, e gli fu imputato come giustizia (Gn 15, 6). Camminando con la pena nel cuore verso la montagna del sacrificio, il padre della fede si rimette totalmente al suo Dio; egli non vede, ma sa che sul monte Dio provvederà (Gn 22, 8.14). E difatti un angelo gli mostrerà l'ariete, impigliato con le corna in un cespuglio, che verrà offerto in olocausto al posto del figlio (Gn 22, 13).

La prova della "sterilità" di Sara, come quella delle mogli dei patriarchi, non è diversa dalla prova della "aridità" attraverso la quale dovette passare l'intera famiglia dei figli di Abramo, nel deserto del Sinai e, molto più tardi, nel deserto dell'esilio. Per il popolo di Israele la prova consisterà nel vivere senza la terra (fertile), senza risorse vitali, senza poter accumulare dei beni a garanzia del domani. Nel deserto l'israelita è chiamato alla fede; per superare la prova deve accettare di vedere solo quello che Dio gli dona nel presente, senza preoccuparsi del domani. Nell'oggi c'è il segno della manna, del vestito che non si logora, ed è qui che si scorge la traccia della Provvidenza a cui affidarsi. Anche Gesù, nel Vangelo, richiama i suoi discepoli a un atteggiamento di fiducia nel Padre: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre... Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Mt 6, 26_29). Segni della creazione, segni delle piccole cose in cui Dio si manifesta come creatore provvidente, segni dati al credente per camminare nella povertà, nella privazione, nella fatica quotidiana. Accogliere questi segni è già superare la prova.

Il deserto come esperienza

E’ estremamente delicato parlare di Dio che «mette alla prova»; c'è il rischio di trasmettere l'immagine di un sovrano sadico e crudele, che si compiace delle tribolazioni altrui, che non è contento se non vede la sofferenza e le lacrime. Si può parlare correttamente di prova solo introducendo almeno tre correttivi.

Del primo si è già detto nel paragrafo precedente. La privazione, la miseria, la debolezza dell'uomo sono la condizione stessa della vita umana: è l'essere umano, in quanto mortale, a portare con sé la sua precarietà e finitudine, senza la quale non potrebbe nemmeno esistere. Questa condizione di fragilità sarebbe disperante _ e non semplicemente motivo di "prova" _ se Dio non avesse predisposto le tracce per una lettura credente, se non avesse lasciato dei segni di vita che, accolti nella fede, possono consentire all'uomo di superare la prova, di accedere cioè a un senso dell'esistere che trova la pace nell'affidarsi totalmente al dono che scende dall'alto, nel rimettere il proprio spirito nelle mani del Padre.

Il secondo correttivo si ricollega a quanto appena formulato, ed è suggerito dalla frase conclusiva del testo deuteronomico sopra citato: «Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te» (v. 5). E necessario ribadire con fermezza che chi mette alla prova è il "Padre, l origine della vita, il creatore che ama gratuitamente e con eterna fedeltà. Quando dunque egli conduce nel deserto, nella prova della umiliazione, lo fa per "insegnare"; il suo intento è benefico per l'israelita, e il mezzo usato è pieno di sapienza, perché è solo in questo modo che il figlio impara la "lezione". Il termine ebraico che al v 5 è stato tradotto con "correggere" appartiene alla terminologia sapienziale, e potrebbe essere reso forse più esattamente con "dare una lezione". Nel deserto JHWH insegna. In primo luogo corregge gli sbagli, usando lo strumento punitivo, cosi che rimanga impressa anche corporalmente la verità che è principio di vita; il deserto è una correzione dell'orgoglio di Israele, della sua pretesa ribelle a fare da solo, della sua ostinazione a credersi autonomo e a voler agire senza obbedire Se Israele non e corretto, anche severamente, egli muore. In secondo luogo, JHWH insegna creando le condizioni favorevoli per una migliore recezione della sua parola; per questo ha portato Israele nella solitudine, lontano da ogni voce di seduzione, così da poter parlare al suo cuore (Os 2, 16); ha disposto condizioni di povertà e precarietà, perché il popolo capisse e riconoscesse, con una illuminazione interiore, che l'obbedienza alla parola è condizione indispensabile e sufficiente del vivere per l'uomo. Se Israele impara questo, nel deserto, avrà ricevuta dal suo Dio una istruzione che gli servirà per sempre.

E veniamo così al terzo correttivo della nozione di "prova", per il quale è utile leggere il testo del Deuteronomio, a continuazione di quello citato in precedenza:

[8.6] Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo;

[8.7] perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; [8.8] paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; [8.9] paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. [8.10] Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato. [8.11] Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti dò. [8.12] Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, [8.13] quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, [8.14] il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; [8.15] che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ho fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; [8.16] che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire.

[8.17] Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. [8.18] Ricordati invece del Signore tuo Dio perché Egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri. [8.19] Ma se tu dimenticherai il Signore tuo Dio e seguirai altri dei e li servirai e ti prostrerai davanti a loro, io attesto oggi contro di voi che certo perirete! [8.20] Perirete come le nazioni che il Signore fa perire davanti a voi, perché non avrete dato ascolto alla voce del Signore vostro Dio.

Il deserto è una prova, la sofferenza e la morte sono una prova. Certo, ma anche la condizione di benessere, anche il possesso della terra è, a modo suo, una prova rischiosa, nella quale ci si può perdere.

Mosè parlando ai figli di Israele traccia davanti ai loro occhi un quadro "paradisiaco"; alcuni elementi della descrizione della terra di Canaan (w. 7_9) richiamano infatti l'Eden (cf. Gn 2, 1014). Il paese in cui il popolo sta per entrare è un territorio marcato dall'abbondanza: la ricchezza delle acque sorgive produce frutti svariati e copiosi, senza che manchi nulla per saziare la fame (w. 79). Inoltre, la sicurezza militare, che richiede un adeguato equipaggiamento, è garantita dal ferro e dal rame che si estraggono facilmente e in grande quantità dalle montagne (v. 9), e che serviranno per fabbricare armi. Il popolo è così nella prosperità; vive in belle case, ha molto bestiame, molto oro e argento; in ogni ambito vi è dovizia di beni (w. 12_13). Ebbene, questa situazione di fantastico benessere, risultante dall'azione salvifica di Dio, si rivela pericolosa: il rischio di perdersi viene, in questo caso, dalla mancanza di memoria. Si perisce così (w. 19_20) non per mancanza di cibo, non per scarsità di protezione contro il nemico, ma si muore perché manca la verità interiore, perché si è dimenticato chi si è, dimenticando da dove si proviene, dimenticando JHWH (v. 14).

E la sazietà (w. 10 e 12) a ingenerare l'oblio. Il cuore si appesantisce, dicono gli Ebrei; come sotto gli effetti dell'ubriachezza, l'intelligenza si offusca, si esce di "mente", e ci si comporta in modo stolto e pericoloso. Il dono di Dio, proprio perché dono generoso e pieno, Si rivela principio di possibile sventura. Ma non per colpa di Dio. Perché è colpa dell'uomo il perdere il proprio "cuore", "scordando" invece di "ricordare".

Cosa vuol dire propriamente "dimenticare" JHWH (v. 11)? Significa non considerare importante e vitale quello che il Signore ha fatto per il suo popolo. Il nostro testo menziona in proposito due eventi che appartengono alle origini di Israele: l'esodo dall'Egitto (v. 14), e la traversata del deserto (w. 15_16). Per il Deuteronomio ricordare di essere stati schiavi e di essere stati liberati dalla forza di Dio (v. 14), così come il ricordare la prova umiliante del deserto (v. 16) con la vittoria operata da JHWH sulle potenze di morte (v. 15), ha la funzione essenziale di porre come base dell'esistenza la presenza amorosa del Signore nella storia di Israele. Evocando, all'origine del popolo, la paternità divina, Mosè fa capire che il desiderio di Dio è la vita e la "felicità" di Israele (v. 16).

Se si dimentica JHWH e la sua volontà di bene si cade nel dominio della morte. E come si manifesta questa dimenticanza? Concretamente, essa si rivela nel fatto di non prestare attenzione alla sua parola, nel non obbedire ai suoi comandamenti (w. 6.11 e 20: all'inizio, a metà, e alla fine dell'unità letteraria). Si vive delle cose, si crede di dipendere dalle cose; e non si vive della parola, non si vive del dono di Dio.

Non ascoltare la parola di JHWH è sinonimo di ribellione, di assurda pretesa di indipendenza, di orgoglio insensato. Invece di benedire il Signore per tutto quello che gli ha amorevolmente concesso (v. 16), invece di riconoscere di non avere se non ciò che si è ricevuto (1 Cor 4, 7), l'uomo plaude a se stesso, al suo operato, alla sua abilità, saggezza, valore: «La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze» (v. 17; cf. anche Gdc 7, 2; Is 10, 13_15; Am 6, 13). E, nell'orgoglio, la mente si perde, e si viene a costruire un idolo, ad adorare l'apparenza che si è fabbricata, a prostrarsi davanti a ciò che è bello, forte, piacevole e rassicurante. L'uomo orgoglioso adora se stesso nella sua propria opera, e dimentica da dove viene, e dimentica chi lo ha creato e donato a se stesso.

Ecco l'importanza della "lezione" del deserto. Israele ha inciso nella sua carne la memoria dolorosa della sua debolezza e impotenza, ne porta le tracce e non deve cancellarle. E così spontaneo, dopo aver attraversato un'epoca difficile, il voler rimuovere ad ogni costo il ricordo spiacevole della sofferenza, come se fosse non solo fastidioso e umiliante, ma anche non conforme alla verità della persona. Si deve far finta che niente sia stato, così da dare a se stessi l'immagine dell'eterno vincente, dell'essere che non può morire. Il Deuteronomio dice invece all'israelita: ricordati, ricordati del fatto che sei stato vicino a morire, ricordati sempre della tua miseria e fragilità, perché è questa la tua verità. Se tu la dimentichi, assomiglierai alle nazioni (v. 20), senza rivelazione e senza verità, abbagliate dal mito di una perenne giovinezza, e per questo votate a perire. E l'orgoglio, è la menzogna dell'idolatria, è l'oblio che fa morire non l'umiltà che è frutto della sofferenza, della lezione che il Signore ti ha amorevolmente impartito nel deserto.

In Israele i Recabiti erano una memoria vivente del periodo del deserto: abitavano sotto le tende, non coltivavano i campi, non bevevano vino (Ger 35, 6_7). Il loro capostipite, Ionadab figlio di Recab, nella sua lotta contro il baalismo (2 Re 10, 15.23) aveva imposto al suo clan l'ideale della religione del deserto, rifiutando quindi la cultura urbana e agricola. Al tempo di Geremia, il profeta può additare i Recabiti come esempio di fedele obbedienza al Signore e alle loro tradizioni ancestrali (35, 13_16). Una cosa simile, in certo senso, rivive in Israele anche con Giovanni Battista, che ritorna nel deserto, e si nutre di cavallette e di miele selvatico (Mt 3, 4), praticando il digiuno e l'astensione dal vino come caratteristica della sua spiritualità (Lc 1, 15; 7, 33). Questo genere di personaggi, con la loro scelta di vita, fungono da "promemoria" per i credenti di Israele; sono i precursori dei monaci e di tutti coloro che hanno tradotto in termini di austera povertà il loro desiderio di essere totalmente obbedienti al Signore. Ma, direbbe il Deuteronomio, anche chi abita in case belle e spaziose chi mangia pane a sazietà e beve vino~ anche chi usa dei mezzi di questo mondo deve "ricordare" il deserto. E san Paolo riprende questa idea scrivendo: «Quelli che godono vivano come se non godessero e quelli che comprano come se non possedessero, quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno» (1 Cor 7, 30_31). Anche questo è un modo di ricordare il deserto.

Il deserto, luogo del "nascere" di Israele

Il capitolo 8 del Deuteronomio interpreta globalmente i quarant’anni passati dal popolo nel deserto come un momento difficile, di punizione e di prova. Benché, come ci siamo sforzati di mostrare, si possano riscontrare molti elementi positivi in tale penosa traversata, è indubbio che essa è marcata da una costante di fondo, quella dell'umiliazione e della sofferenza.

Da un po' di tempo a questa parte, sulla scia probabilmente di alcuni saggi di teologia biblica, è invalsa l'abitudine di parlare del deserto come di una esperienza "forte" di solitudine e di incontro con Dio. La spaventosa landa desolata, abitata solo da serpenti e scorpioni, viene così trasformata in un romitorio quasi romantico, luogo di intima comunione, di gioie segrete, di silenzio e di ascolto, di indicibili scoperte d'amore. Più che influenzata dalle tradizioni dei Padri del deserto (che parlano comunque delle "tentazioni" che vi si incontrano) e delle pagine di mistici (che evocano sempre la notte oscura), una tale prospettiva sembra appoggiarsi su alcuni passi biblici. Immancabile è quello di Os 2, 16, dove il Signore, parlando della sposa infedele, dice: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore»; e, nella stessa linea dell'amore sponsale, si cita volentieri anche Ger 2, 2_3: «Mi ricordo dell'affetto della tua giovinezza, dell'amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata; Israele era cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto».

A questo proposito, non solo per una corretta interpretazione del Deuteronomio e di altri testi della Scrittura, ma anche per un'adeguata teologia biblica, è necessario che venga criticata l'immagine di un deserto bucolico, desiderato come quadro ideale dell'esperienza d'amore. Il deserto, per Osea, è la punizione dell'esilio inferta al peccato di idolatria (Os 2, 5.8.14); e, per Geremia, è l orrido abisso dove nessuno può abitare e vivere (Ger 2, 6), da cui il Signore miracolosamente salva il suo popolo conducendolo alla «terra da giardino» (2, 7). Andare di propria iniziativa nel deserto significa esporsi a morire (G~ 21, 14_16; 1 Re 19, 4); solo lo Spirito buono e vivificante di Dio può spingere nel deserto (Mí 4, 1; Lc 4, 1), perché, nel superamento della 'tentazione" (cioè della prova), si manifesti 1'o6bedienza del figlio di Dio alla volontà del Padre. Solo Dio può far camminare nel deserto. su vipere e scorpioni, perché solo lui può indicare il cammino della passione e della croce per giungere alla gloria.

E dunque importante ed essenziale che si continui a ribadire che il deserto _ simbolo della sofferenza e della morte _ è un luogo spaventoso (v. 15); solo così infatti si potrà intuire il miracolo inaudito di una vita che scaturisce dalla morte, di una gioia che sgorga dalle lacrime:

«Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada:

Israele si awia a una quieta dimora. Da lontano mi è apparso il Signore: Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo fedeltà» (Ger 31, 2_3 ).

Questa profezia di Geremia si applica al tempo dell'esilio, e riprende la terminologia della salvezza e dell'alleanza che serviva ad esprimere la teologia tradizionale dell'Esodo. Il popolo di Dio rinasce, in certo senso, ricevendo grazia nel luogo della sua morte. Per il Deuteronomio, al capitolo 32 (scritto, a nostro avviso in epoca esilica, anche se può riecheggiare, con il suo stile arcaico, motivi letterari antichi), è il deserto ad essere il momento originario di Israele. Tracciando la storia del popolo, vengono omesse le tradizioni di Abramo e dell'Esodo; l'incontro primo tra l'Altissimo e Israele viene così presentato:

«Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, Egli spiegò le ali e lo prese lo sollevò sulle sue ali, il Signore lo guidò da solo, non c'era con lui alcun dio straniero» (Dt 32, 10_12).

Il Deuteronomio parla qui dell'origine di Israele, del suo "emergere" come popolo nella storia degli uomini. Alla orrenda desolazione del sito si contrappone l'incredibile cura amorosa di JHWH, che è solo nella sua opera di padre, senza che nulla, al di fuori di lui, possa contribuire a dare vita. Questa presentazione prepara, come messaggio di fede, la buona notizia profetizzata per il tempo dell'esilio, per il periodo della grande sofferenza, per il momento in cui ognuno entrerà nella fossa della morte: quel luogo terribile vedrà l'agire di Dio, del Creatore e Padre, lì si realizzerà l'amore eterno e indefettibile del Signore, lì avverrà l'incontro sponsale e vitale tra l'Altissimo e l'umile sua creatura. Lì, nella morte, nasce il figlio di Dio, per una vita immortale

Ultima modifica il Martedì, 24 Marzo 2020 09:55
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