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Sabato, 17 Gennaio 2015 20:11

Le chiese di Oppido

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Un "giro" architettonico nella storia della comunità cristiana di Oppido

"Il dio che creò il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo il Signore del cielo e della terra, non ha l'abitazione in templi manufatti né si fa servire dalle mani dell'uomo come se avesse bisogno di qualche cosa, egli che a tutti dona vita, alito, ogni cosa". Sono le parole che San Paolo rivolse agli epicurei ateniesi, smaniosi di sentire la dottrina nuova da lui diffusa nel mondo greco. Nonostante queste precisazioni, le assemblee liturgiche si sono sempre svolte, fin dalle origini cristiane, in ambienti dedicati e costruiti con raffinata fede nel Dio nascosto.

Per quel che ci riguarda in questa sede, siamo informati della presenza di una chiesa ad Oppido fin dalle sue origini nell'undicesimo secolo dell'era cristiana.

"Johannes, narra il testo, ebbe un sogno - ecco, lui stava officiando nella chiesa principale di Oppido … di fronte alla sua gente, quando guardò in alto e osservò un uomo che stava in piedi alla sua destra di fronte all'altare".

Questa chiesa di Oppido nasce in un particolare periodo di vivace architettura religiosa. Già Francesco Giannone nelle sue Memorie Storiche dell'antica terra di Oppido, collocava l'origine di questo centro abitato e del suo castello tra il 1041 e il 1085, ossia al tempo dei Normanni. Va ricordato, inoltre, che nella seconda metà dell'XI secolo sorgono le due cattedrali coeve di Aversa e Acerenza, accomunate da un caratteristico disegno architettonico, diverso da tutte le altre cattedrali del sud.

Per individuare l'idea che accompagna queste costruzioni conviene ascoltare ciò che riferiscono nobili personaggi del tempo, come Sugerio, abate di Saint Denis, animatore delle più grandi imprese figurative e architettoniche dell'Ile de France. Per l'abate Sugerio, la casa di Dio dev'essere di raffinata bellezza, a differenza di un rigorista quale San Bernardo con idee, in proposito, simili a quelle di Giuda Iscariota nella casa di Marta e Maria a Betania, tendenti al risparmio.

Nel 1134, in occasione del rinnovamento del complesso cisterciense di Saint-Denis, Bernardo enunciò per la prima volta alcune regole base del fare architettonico cistercense, che possono essere così sintetizzate:

1. Va rigettata ogni decorazione dipinta o scolpita.

2. E' bandito anche l’uso delle vetrate variopinte.

3. Le abbazie dovevano rispecchiare la sobria severità della regola benedettina sia nella struttura degli edifici sia nella collocazione, che doveva essere posta in luoghi isolati, sottolineando inoltre la chiusura al mondo terreno attraverso la costruzione di alte mura di cinta intorno al complesso.

4. L’interno della chiesa doveva essere rigorosamente spoglio, privo di ornamenti, affreschi o arredi preziosi, in quanto tutto ciò poteva rappresentare una distrazione dalla preghiera e dalla contemplazione divina.

Ascoltiamo, al contrario, brevemente Sugerio: "Unde, cum ex dilectione decoris domus Dei, perciò quando per l'amore che nutro per la bellezza della casa di Dio, la caleidoscopica leggiadria delle gemme mi distrae dalle preoccupazioni terrene e, trasferendo anche la diversità delle sante virtù delle cose materiali a quelle immateriali, l'onesta meditazione mi persuade a concedermi una pausa … mi sembra di vedere me stesso in una regione sconosciuta del mondo, che non è completamente né nel fango terrestre, né si trova del tutto collocata nella purezza del cielo, e mi sembra di essere in grado di trasferirmi, con l'aiuto di Dio da questa inferiore a quella superiore in modo anagogico".

Le numerose riflessioni fissate in questo testo sembrano siano state seguite anche a Oppido nel decoro della propria chiesa e di altri edifici religiosi, costruiti nel proprio territorio fino allo scadere del XIII secolo, allorquando si assiste anche in questo piccolo centro ad una profonda decadenza nell'estetica religiosa e nell'architettura.

(L'incompiuta chiesa della Trinità a Venosa)

     

Non è facile per l'uomo moderno, ricordava di recente il noto Umberto Eco, comprendere la sottile distinzione tra bellezza e utilità, bellezza e bontà (pulchrum et aptum - decorum et honestum). Una distinzione, tuttavia, già presente nella letteratura classica, confluita successivamente negli autori cristiani, Padri della Chiesa e Dottori, fino alle sottili elaborazioni degli scolastici. Per gli autori cristiani l'arte deve avere essenzialmente un fine didascalico, definito nel 1025 al Concilio di Arras.

Lo scopo della pittura, secondo Onorio di Autun, Guglielmo Durando, San Tommaso ecc., è triplice. Serve:

         per abbellire la casa di Dio (ut domus tali decore ornetur)

         per ricordare la vita dei santi

         per diletto delle persone incolte (idiotis cernentibus praestat pictura)

Nel territorio di Oppido sono sorte fin dalle origini cristiane, "chiese e chiesette silenti e nascoste, dolce asilo di serenità". Tuttavia, nell'iscrizione della cappella nella masseria Ciccotti, si leggeva che in quella cappella non era praticato il rifugio o l'extraterritorialità.

Sorvolo il tempo come aquila sui monti fino ad arrivare nel XVIII secolo, quando finalmente si avvertì la necessità di provvedere alla decorazione dei luoghi di culto.

Nel 1726 erano trascorsi 163 anni dalla chiusura del Concilio di Trento, eppure ad Oppido, come anche in molte altre località della penisola, quel Concilio aspettava ancora la sua piena attuazione, nonostante la presenza a Trento dell'arcivescovo acheruntino Giovanni Michele Saraceno, uno dei protagonisti della Riforma Cattolica in Italia e il sinodo celebrato nel 1567 a Matera da suo nipote Sigismondo. All'arcivescovo Saraceno va riconosciuto, in ogni caso, il merito di aver dato origine alla sistematica Visita Pastorale nelle sue diocesi di Acerenza e Matera, secondo i dettami emanati dal Concilio.

La chiesa di Oppido, fino all'abolizione della feudalità, era una ricettizia semplice, un sistema di organizzazione ecclesiastica lontano dalle regole evangeliche e dall'architettura sacra, molto difficile da incanalare nell'alveo delle normative tridentine, dettate da una profonda riforma "tam in capite quam in membris" per uscire finalmente dal dramma in cui versava la Chiesa.

La parrocchia di Oppido, intitolata ai SS. Pietro e Paolo, all'inizio del XVIII secolo possedeva numerosi requisiti giuridici richiesti dal Concilio di Trento, come i cinque libri parrocchiali (lo stato d'anime, il libro dei battezzati, dei cresimati, quello dei matrimoni e dei morti), con un chiaro confine territoriale, ma era ancora molto lontana dalla struttura fondamentale della Chiesa tridentina e dalle antiche tradizioni cristiane. Il clero, infatti, si configurava fortemente legato a tradizioni feudali e organizzative di natura piuttosto laiche e materiali più che sacre ed evangeliche. Ciò spiega anche il numero elevato di preti ascritti alla chiesa ricettizia dei SS. Pietro e Paolo di Oppido. Nel 1726, ad esempio, con una popolazione di 2434 abitanti Oppido contava 25 sacerdoti capitolari, partecipanti alla divisione della massa comune; (così era definito il patrimonio appartenente al Capitolo parrocchiale). Un patrimonio che rendeva annualmente oltre diecimila ducati, ossia circa 400 ducati per ciascun sacerdote partecipante, che tradotto in termini moderni erano circa 660 euro mensili.

L'arcivescovo Mons. Vincenzo Lanfranchi comprese la necessità per la sua diocesi di un Seminario che provvedesse alla formazione di nuovi sacerdoti, ma che fosse anche un centro per la diffusione del sapere e della cultura. L'impresa non fu semplice, soprattutto per le difficoltà economiche. L'apertura di un seminario comportava la spesa di circa undicimila ottocento ducati, sostenuta quasi interamente dal facoltoso arcivescovo".

Elenco in rapida successione i luoghi di culto presenti nel territorio di Oppido:

1. Chiesa dell'Annunziata

2. Chiesa di San Giovanni

3. Convento e Chiesa di Santa Maria del Gesù

4. Chiese non più esistenti: San Nicolò e Sant'Igino, Sant'Antonio abate, Santa Sofia, Madonna della Neve, Santa Maria di Costantinopoli, Santa Lucia. Tralasciando le numerose cappelle, sparse un pò ovunque.

5. Chiesa di Santa Maria del Belvedere:

la chiesa era orientata con l'abside a est, e aveva la parete meridionale adiacente al chiostro quadrangolare. Su quest’ultimo si aprivano, lungo il lato sud, il refettorio, la cucina e il calefactorium (ambiente riscaldato); dal portico occidentale si accedeva all'ala dei conversi e al cellarium (dispensa); sul lato orientale erano infine situati la sala capitolare, il parlatorio e una sala di riunione dei monaci, sopra i quali si trovava il dormitorio.

Una foresteria, una cappella destinata alle donne e agli stranieri, granai, stalle e laboratori di vario genere.

Architetti di questo complesso furono gli stessi monaci, che progettarono l'edificio, partecipando alla costruzione.

Una preghiera alla Vergine

C’è un binomio inscindibile nell’urbanistica delle città medioevali tra il primo e il secondo millennio: la Cattedrale e il Castello. La Cattedrale si differenziava da qualsiasi altro edificio per il suo contenuto teologico e di testimonianza cristiana, né poteva essere confusa con altre costruzioni religiose, per le quali vi era una normativa giuridica differente. Le chiese in genere, ad esempio, potevano essere oggetto di una dedicazione o di una consacrazione, mentre per la Cattedrale la dedicazione e la consacrazione erano obbligatorie. Si può dunque affermare che la Cattedrale era l’edificio di somma importanza all’interno della città, dove confluiva l’intera municipalità, in molti casi anche gli animali. Da qui l’esigenza di costruirle in forme imponenti, come punto di riferimento e fulcro dell’intero abitato degradante intorno ad essa, in una frenetica gara tra le varie municipalità per realizzare la cattedrale in forme splendide, anche in segno di supremazia nei confronti di altre città. Tali edifici comprendevano la domus del vescovo e dei chierici a lui legati e spesso tre chiese assai vicine: una dedicata alla Vergine riservata al vescovo, la seconda al clero Cattedrale, la terza, che portava comunemente il nome del Battista, era il luogo in cui il vescovo amministrava il battesimo, che ancora all’epoca carolingia avveniva per immersione.

Sul rinnovato interesse per la costruzione delle cattedrali nei primi anni del secondo millennio è nota la testimonianza di Rodolfo il Glabro: “Si era, egli dice, già quasi all’anno terzo dopo il mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali: sebbene molte fossero ben sistemate e non ne avessero bisogno, tuttavia ogni popolo della cristianità faceva a gara con gli altri per averne una più bella. Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido manto di chiese. In quel tempo i fedeli sostituirono con edifici migliori quasi tutte le chiese delle sedi episcopali, tutti i monasteri dedicati ai vari santi e anche i più piccoli oratori di campagna”.

La storia del rifacimento delle basiliche e dei costruttori di cattedrali “è in stretto rapporto con la rinascita delle città e dei commerci, con il sorgere della borghesia, ed anche con le prime libertà civili”. Questo rinnovamento delle città, condotto con tanto entusiasmo dalle popolazioni del secolo XI, accompagnato nella seconda metà del secolo dalla riforma gregoriana, segnò inoltre una profonda trasformazione nel clero, che acquistò prestigio e dignità di guida all’interno della società civile del tempo.

Quando Roberto il Guiscardo entrò in Acerenza nel 1061, prendendo possesso della cittadella, i suoi abitanti composti da artigiani monetieri e mercanti, sottoposero all’attenzione del vincitore le proprie clausole di tutela che il normanno era tenuto a garantire, ad iniziare dalla salvaguardia delle reliquie dei suoi santi custoditi dall’arcivescovo con il suo clero nella cattedrale longobarda.

Nel 1068 Alessandro II, nell’accogliere la richiesta dell’arcivescovo Arnaldo di rinnovargli i privilegi precedentemente concessi ai presuli acheruntini, gli ricordò la necessità di migliorare i luoghi che custodivano le reliquie dei santi: “Tunc enim lucri potissimum praemium apud conditorem omnium Deum, nos habituros speramus, si venerabilia loca sanctorum per nos fuerint ad meliorem statum perducta”. L’esortazione del Pontefice incoraggiò quindi l’arcivescovo, ad adeguare la Chiesa acheruntina alle mutate situazioni giuridiche del centro abitato nei confronti dell’intera regione Basilicata e di onorare opportunamente le reliquie conservate nel vecchio edificio religioso. Ma per far questo occorreva un miracolo per il reperimento dei fondi necessari alla costruzione di un nuovo edificio cattedrale. Era il messaggio trasmesso dalla più grande e ricca organizzazione monastica del tempo, con sede a Cluny nel cuore dell’Europa, dove già da tempo l’abate Ugo aveva messo in cantiere la costruzione di una grande chiesa abbaziale, i cui lavori iniziarono finalmente il 30 settembre 1088, preceduti da un prodigio narrato da Ildeberto di Le Mans nella Vita Hugonis.

Per la raccolta dei fondi si fece ricorso anche ad Acerenza all’Inventio del corpo di San Canio. Si trattava della costruzione della cattedrale, per cui non v’era alcun rischio di cadere nel peccato di simonia. Favori spirituali in cambio di elemosine per la costruzione del duomo. Avrebbe dovuto vivacizzare quindi anche il commercio e il lavoro umano all’nterno di una città completamente nuova e diversa dalla concezione precedente, che relegava l’economia soltanto all’nterno delle mura cittadine.

“Nell’anno del Signore 1080 fu rinvenuto il corpo del beato Canio in Acerenza dall’arcivescovo Arnaldo, e lo stesso arcivescovo iniziò a costruire il nuovo episcopio, ossia la chiesa di Santa Maria, Madre di Dio”. E’ la prima e più antica notizia riguardante la Cattedrale di Acerenza, nonché l’unica attestazione di un intervento edilizio all’interno della città al tempo dei Normanni.

Occorre notare in proposito che il cronista, nella sua laconica brevità, parla di due azioni ben distinte: la prima si riferisce all’invenzione delle reliquie di San Canio e la seconda alla costruzione del nuovo episcopio.

Dalla notizia del Protospatario si ricava che già in precedenza vi era in città un regolare episcopio, ossia un’altra chiesa Cattedrale, dedicata ugualmente alla Vergine Madre di Dio. Egli infatti parla di “nuovo episcopio” e non di “episcopio” in senso assoluto. La notizia fu ripresa successivamente da Romualdo Salernitano: “Eodem anno corpus beati Canionis a loco, in quo olim positus fuerat, ab Arnaldo levatur archiepiscopo et in sancte Dei genitricis Marie ecclesia noviter inchoata honorifice collocatus”. Anche Romualdo quindi riporta due notizie distinte, precisando che le reliquie furono trasferite dalla precedente collocazione in quella nuova. E’ un’ulteriore conferma dell’esistenza ad Acerenza del corpo di San Canio già da lunga data.

Quanto alla datazione del nuovo episcopio va tenuto in considerazione soprattutto l’aspetto giuridico della diocesi acheruntina, di recente elevata a sede metropolitana. E’ un elemento fondamentale anche per la definizione cronologica delle due costruzioni molto simili di Acerenza e Venosa, già messa opportunamente in evidenza dallo Shulz.

L’origine della Cattedrale di Acerenza, al di là delle discussioni in proposito, ci porta a considerare primariamente lo spirito che animò gli ideatori di un edificio così grandioso nei confronti delle altre costruzioni acheruntine.

L’ispirazione progettuale, come sarà evidenziato più avanti, proveniva da ambienti monastici ben noti alla popolazione e soprattutto all’arcivescovo committente, che tradusse in termini plastici e visivi il proprio bagaglio culturale ed ecclesiologico, dietro la spinta dei movimenti riformatori del monachesimo benedettino.

Nella mente di chi progettò la costruzione vi era l’idea di realizzare una Chiesa d’eccezionale bellezza e ampiezza, che avrebbe dovuto uguagliare, se non superare la bellezza e la grandezza delle Chiese vescovili presenti sul suolo della Basilicata. Nello stesso tempo esprimere, attraverso l’interpretazione anagogica dei testi sacri, le realtà soprannaturali scolpite nelle singole pietre della Cattedrale, finalizzate principalmente alla comprensione del ruolo della Vergine Madre di Dio all’interno della Chiesa. “Sicut enim Deus totius maioris mundi nobilitatem collegisse visus est et posuisse in homine, ita totius Ecclesiae et militantis in terra et triumphantis in coelo nobilitatem collegit in Virgine”. La definizione “Madre di Dio” risaliva ai Concili di Efeso e Calcedonia del 431, dove erano state fissate le formule dogmatiche dell’Incarnazione, manifestata alle genti il giorno dell’Epifania.

La Vergine evocava quindi nella mente del visitatore dell’XI secolo principalmente l’adorazione dei Magi; un’immagine che attualmente si trova all’interno della cripta della Cattedrale acheruntina. E’ probabile che il frescante del secolo XVII abbia avuto modo di vedere una raffigurazione dei Magi all’interno della stessa cattedrale, scomparsa al tempo dei rifacimenti barocchi.

L’uomo dell’XI secolo si ritrova dunque davanti alla Vergine al posto dei Magi, per offrire al Cristo Salvatore il monumento di pietra costruito con le proprie mani, che nella simbologia del tempo indicava la Vergine Maria come annunzio e coronamento del trionfo della Chiesa, essendo la cattedrale la rappresentazione plastica del mistero del Verbo Incarnato e immagine della Vergine Maria. La cattedrale rappresenta pertanto il tema della maternità divina e il segno del riallineamento dei fedeli intorno al Verbo Incarnato all’interno della Chiesa cristiana e cattolica.

Anche la liturgia del giorno dell’Epifania esprime simbolicamente la maternità divina e la regalità universale di Cristo con la fede del popolo che rende omaggio alla divinità. L’espressione del Protospatario “la Chiesa di Santa Maria, Madre di Dio”, potrebbe dunque essere intesa come genitivo epesegetico, ossia esplicativo del sostantivo “chiesa”, da leggere in questi termini: iniziò a costruire il nuovo episcopio, ossia la Chiesa che è Santa Maria, Madre di Dio. Un’espressione simile si trova in una pergamena conservata nell’Archivio Capitolare di Bari. Nel 1028 i coniugi Bisanzio e Alferada dichiarano di voler fare una donazione all’arcivescovo Bisanzio, ossia “alla Chiesa della beata e gloriosa e sempre vergine Madre di Dio, che è appunto l’episcopio”.

La Cattedrale è pertanto la Vergine, la nuova Gerusalemme, secondo la tradizione liturgica della chiesa di Roma: “prima die Paschae apud beatam Virginem celebrat stationem quasi proponens Jerusalem, id est Virginem, quae videt pacem prae aliis, in principio laetitiae suae, quo circa sicut prima die ad Sanctam Mariam praescribitur sic ad eius honorem, in dominicalibus processionibus prima ratio deputatur, ut eam laudibus extollentes, et ad eius oratorium festinantes, cum sponso dicere videamur: Vadam ad montem myrrhae et ad collem thuris. Mons est Beata Virgo Maria.”. In essa si svolge la liturgia eucaristica ed escatologica.

I cristiani, nell’attesa della rinascita, sono invitati a vivere all’intemo dell’utero materno, ossia dentro la Chiesa. “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse rientrare nel seno della madre e rinascere?”, fu la risposta di Nicodemo al discorso di Gesù sulla rinascita spirituale. Per l’uomo del medioevo la rinascita era possibile solo attraverso il soggiorno nella Cattedrale, ossia vivendo nel seno della Vergine, Madre di Dio. E’ lei che vivifica e conduce il cristiano alla fonte della vera vita. Lei, avvampata dalle realtà divine. Ed è Lei che fa fuggire gli animali orrendi, che rappresentano il male, il peccato, collocati all’esterno della chiesa per significare la vittoria della fede. Del resto, lo stesso San Paolo aveva affermato che “Dio non abita nelle costruzioni fatte dalle mani degli uomini”, perciò solo considerando la Cattedrale vivificata dalla Vergine, era possibile svolgere le azioni liturgiche al suo interno. La Cattedrale e la Vergine Maria sono pertanto la medesima cosa e in Maria si riunisce la comunità dei credenti. E’ lei che li genera alla fede, invitandoli a guardare il Figlio innalzato sulla croce, come il serpente di bronzo innalzato da Mosé nel deserto. Le Cattedrali, del resto, furono quasi tutte costruite in forma di croce.

Non era la prima volta che ad Acerenza veniva edificata una Cattedrale, dove già al tempo del vescovo Leone II era stata eretta un’ecclesia dalle linee di gusto squisitamente longobardo, ma non più in grado di contenere l’affluenza di pellegrini che si recavano per venerare le reliquie di San Canio, di recente rinvenute all’interno della vecchia costruzione.

Si racconta che prima di iniziare i lavori per la costruzione della cattedrale nel 1080, l’arcivescovo Arnaldo calcolò se la nuova costruzione potesse contenere tutti gli abitanti dell’archidiocesi acheruntina. Se la cattedrale, come si è detto, è la Vergine Maria, nessuno doveva essere escluso dalla sua protezione. Il calcolo fatto dall’arcivescovo Arnaldo secondo la leggenda, aveva pertanto non solo una motivazione di carattere pratico, ma anche e soprattutto un’interpretazione teologica ben definita.

Il linguaggio mariano della cattedrale acheruntina lo si ricava anche dall’orientamento equinoziale dell’edificio, perfettamente in linea con il sorgere del sole nel giorno dell’Annunziazione ed è il punto d’incontro della terra con il cielo, per cui la Vergine è anche “Scala coeli” e “Arca sancta”. E’ lei il tabernacolo dell’Altissimo: “Ipsa tabernaculum Dei, ipsa domus, ipsa atrium, ipsa cubiculum, ipsa talamus”. Ed è tempio perché è Madre. Secondo numerosi testi patristici, la Vergine è un tempio vivente e animato. Antipater di Bostra oppone la Vergine al tempio di Gerusalemme. “Templum Dei simul et Matrem”. “Templum Dei factus est uterus nesciens virum”. Nelle testimonianze la Madonna è detta “Tempio Santo di Dio”, più maestoso e solenne del Tempio di Salomone, “Tempio dello Spirito Santo” (soltanto più tardi, nel corso del secolo XII ella sarà considerata come sposa dello Spirito Santo).

Foederis arca è uno dei titoli più belli dati a Maria dalla tradizione liturgica. Il titolo è molto frequente negli scritti dei Padri della Chiesa, pur non offrendo essi una spiegazione teologica dell’appellativo. La Vergine è Arca Santa in ragione della ricchezza spirituale che contiene, impreziosita dallo Spirito Santo. A Lei inoltre è applicato dai Padri il versetto del Salmo 132: “Sorgi, o Jahve, alla tenda del tuo riposo, tu e l’arca tua maestosa”.

Nell’universo medioevale cielo e terra erano molto vicini e nel caso della Cattedrale di Acerenza costituivano un tutt’uno con la fabbrica materiale. Per gli architetti la Cattedrale doveva essere la Vergine che prendeva dimora in mezzo al suo popolo. Sono concetti, del resto, che coincidono con la narrazione evangelica di ciò che avvenne sul Golgota ai piedi della croce nell’interpretazione dell’Apostolo Giovanni: “a partire da quest’ora il discepolo l’accolse con sé”.

Per evitare equivoci in proposito Sant’Ambrogio avvertiva che Maria è il Tempio di Dio, non il Dio del Tempio. La Vergine simboleggiava la Chiesa vera, non quella fatta dalle mani degli uomini.

In un calendario di Canosa dell’XI secolo sono ricordati nello stesso giorno 25 marzo il mistero dell’Incarnazione e quello della crocifissione. “Annuntiatio sancte Marie; et Dominus noster Jhesus Christus crucifixus est”. Rodolfo il Glabro immediatamente prima di parlare della costruzione di nuove basiliche nel mondo cristiano nei primi anni del secondo millennio, si sofferma sulla questione dibattuta nei concili del tempo sulla data della festività dell’Annunciazione: “giacché, a parere di alcuni la data esatta in cui celebrare l’Annunciazione sarebbe stata il 18 dicembre, secondo l’uso spagnolo“. Ogni episodio della vita della Vergine aveva il suo risvolto nella liturgia, ma era principalmente l’Annunciazione, ossia la festività che ricordava la Theotokos, a darle quella caratteristica teologica strettamente legata agli edifici di culto, soprattutto nelle rappresentzioni musive dei secoli successivi al mille.

Nell’abside della cattedrale di Monreale, costruita al tempo di Guglielmo II, l’Annunciazione campeggia sopra il Cristo Pantocratore, dove la mano divina attraversa incurvando il cielo mentre guida un raggio luminoso, su cui scende, sotto forma di colomba, lo Spirito Santo. Ma è soprattutto l’iconografia dell’arco di trionfo in Santa Maria Maggiore a Roma che esalta la Vergine come Madre di Dio, definita ad Efeso qualche anno prima della costruzione di quella Basilica. All’annunzio dell’angelo alla Vergine segue immediatamente la visita dei Magi. Ad Acerenza una testimonianza del legame esistente con la Basilica Liberiana di Roma può essere la chiesa di Santa Maria ad Nives, ancora esistente nel secolo XVI, stando alla Visita Pastorale dell’arcivescovo Michele Saraceno.

La liturgia della parola del giorno dedicato all’Annunciazione si sviluppa intorno al salmo 44, che San Girolamo chiamava “cantico della verginità”. Al di là dell’esegesi moderna, che vede in questo salmo esclusivamente un canto profano per le nozze di un re, i Padri della Chiesa lo interpretarono in senso allegorico in relazione ai tempi messianici. Questo canto, che nella liturgia odierna è dedicato al Comune delle Vergini, nell’alto medioevo era riservato alla festa del primo gennaio, ossia dedicato alla Madonna onorata nella Basilica di Trastevere a Roma.

Una documentazione antica del senso mistico di quest’antifona è possibile rintracciarla nelle pitture delle catacombe romane, “dove la Vergine è rappresentata col Bambino Gesù, o anche da sola, seduta su di un trono, mentre riceve l’omaggio di tre, quattro o più personaggi riccamente vestiti che le recano i loro doni”. Oggi l’introito dell’Annunziazione si canta anche nella Vigilia dell’Assunzione della Vergine.

Il saluto dell’angelo alla Vergine è assegnato dalla liturgia all’offertorio del giorno dell’Annunciazione. La composizione melodica gregoriana sembra risalga al VII secolo, al tempo del pontefice Sergio I (687-701). Alla lirica delle parole evangeliche, il compositore aggiunge in questo caso una delle più alte espressioni del canto gregoriano, spaziando sulla scala melodica dai gradi inferiori fino ai toni più alti, in uno slancio davvero entusiasmante.

Riprodurre l’offertorio della Festività

Con la dedica dell’edificio alla Vergine Annunziata, ossia alla Madre di Dio fatto uomo, non era una scoperta dell’amore e della venerazione nei confronti della Madonna, ma una concretizzazione materiale della propria fede. Sembra quasi che gli autori abbiano voluto offrire alla Vergine la sua immagine, riprodotta dalle mani degli uomini. Molti sono gli esempi in proposito, ma il più bello in assoluto lo si può ammirare nel Duomo di Monreale, dove la Vergine, seduta in cattedra, riceve dalle mani di Guglielmo II la Cattedrale costruita in suo onore.

Sui capitelli della cattedrale di Bari girava un prezioso architrave di serpentino sostenente la cupoletta a doppio ordine, e nell’architrave stesso era a basso rilievo scolpito lo stemma dell’arcivescovo Effrem, e intorno inciso il seguente distico: Obtulit hoc munus Effrem tibi Virgo Maria, ut tibi placeret ex te Caro facta Sophia. La Vergine, soprattutto quando raffigurata col bambino, evocava nella mente dei credenti non soltanto l’idea di Madre, ma anche della Chiesa e della Sapienza. “L’elaborazione teologica, avvertiva M. L. Thérel, e più ancora i testi liturgici applicati alle differenti festività create nel corso del Medioevo, sensibilizzarono gli spiriti a questa polivalenza del mistero della Vergine”.

In uno studio del 1973 sul tema del simbolismo cristiano Maria-Chiesa dal III al VI secolo, la citata M. L. Therel mostrava con dovizia di particolari le varie fasi dell’arte cristiana dei primi secoli, in stretta relazione con lo sviluppo della comprensione teologica del mistero cristiano. Da quest’analisi emergeva che “dal VI al XII secolo la mariologia tende a ipostatizzare la figura della Chiesa in quella della Vergine”. Per questo il bianco mantello di Cattedrali, di cui parla Rodolfo il Glabro, che rivestì l’intero mondo occidentale nell’XI secolo, ebbe un effetto considerevole sulla dedicazione di questi edifici, quasi tutti indirizzati alla Madonna. San Bemardo, che può essere considerato uno dei cardini della storia del cristianesimo medievale, ha contribuito in forma determinante a diffondere il culto della Vergine, celebrata con numerosi mirabili inni liturgici. Ne riproponiamo uno già edito da J. Gimpel:

O Vergine di salute, Stella del mare,

Tu che avesti per figlio il sole di equità

Creatore della luce, o sempre Vergine

Accogli la nostra lode

Regina del cielo, che dai le medicine ai malati, la grazia ai devoti,

Agli afflitti la gioia, al mondo la celeste luce

E speranza di salvezza.

Corte regale, Vergine pura,

accordaci cura e protezione

e ricevi i nostri voti, e con le tue preghiere

allontana da noi la sofferenza!.

L’originalità dello studio della Therel consiste, come lei stessa afferma, “non più a mettere in parallelo il significato delle immagini della Vergine con la Chiesa e osservare la loro coincidenza progressiva, ma a considerare il valore simbolico dei temi consacrati alla rappresentazione della Chiesa nelle sue prerogative di sposa e madre. L’opera d’arte non appare più soltanto una testimonianza dell’industria umana, ma uno specchio dove ciascuna civiltà ha lasciato il riflesso della sua anima e ci permette di contemplarla per meglio conoscerla”. In proposito osservava il noto medievista Nicola Cilento: “Il valore storico delle testimonianze delle arti figurative ha scarso rilievo quando gli studiosi di esse risolvono le loro indagini unicamente attraverso l’analisi stilistica e comparativa, la quale, indulgendo assai spesso agli eccessi delle valutazioni soggettive, conduce a soluzioni arbitrarie”.

Nella Cattedrale di Acerenza vi è un simbolo che spiega in qualche modo le realtà teologiche in chiave mariana. Si tratta del così detto bastone di San Canio, custodito gelosamente sotto l’altare del Santo. In proposito Rodolfo il Glabro ricordava: “quel serpente nato dal bastone che spaventò Mosè tanto da metterlo in fuga, e poi, afferrato per la coda, tornò ad essere bastone, dev’essere visto sotto la luce dell’allegoria.. La trasformazione del bastone in serpente indica la potenza della divinità rivestita con la carne della santa Vergine Maria”.

Anche il pastorale eburneo, che un tempo faceva parte del tesoro della Cattedrale acheruntina, ha un linguaggio squisitamente mariano: “sull’alto di questa apparisce scagliosa testa di un basilisco, dalle cui fauci vien fuori un grosso serpente, il quale ripiegandosi in forma circolare arriva col capo fino alla coda, e ne morde l’estremità”. Al centro la Vergine. Anche in questo caso il bastone è in stretta unione col serpente, dove tutto si risolve nella figura della Vergine che campeggia nel riccio del pastorale.

Descrizione del pastorale di un autore del secolo XIX.

“1.- Tempietto di figura sessagono. Con colonne e capitelli di ordine corinzio. Ciascun lato di questa figura va fornito di una nicchia, e ciascuna nicchia che si chiude ad arco gotico, contiene immagini di personaggi in piedi, aventi di sopra al capo scritto il proprio nome: San Pietro, Sant’Andrea, Sant’Antonio abate, San Giacomo, San Laverio, San Mariano, a simbolo della chiesa acheruntina e al tesoro delle reliquie incastonate in argento, tanto de’ predetti quanto di molti altri santi, le quali custodivansi nel soccorpo in apposito ossario, tuttavia esistente.

2.- Elevarsi dietro la cornice, che circonda il descritto tempietto e le nicchie, una torre con merli ben disposti e in mezzo accovacciato un basalisco, ch’erge il capo squamoso, sporge il muso in fuori e, schiuse le fauci, mostra la bocca aperta, munita di acuti denti. Simbolo della città di Acerenza, il di cui stemma bizantino è appunto il basilisco, del famoso castello dalle quattro torri, de’ bastioni e fortini, che la circondavano, essendo allora capitale della Basilicata.

3.- Uscire fuori dalla bocca del basilisco un serpente, che avvolgendosi intorno a se stesso e ripiegandosi in forma circolare fino al punto di menare la sua testa a raggiungere la propria coda che poggia sui denti dell’anfibio sembiante quasi morderla. Simbolo dell’idolatria, ripristinata per editto di Giuliano l’Apostata e respinta dalla Chiesa ahceruntina, ove abbattuto il paganesimo, trionfò di nuovo la religione di Cristo.

4.- Risaltare con lettere cubitali dall’un lato del corpo del serpente le parole del Salvatore tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam. E dall’altra Ego dabo tibi claves regni coelorum.

5.- Spaziarsi nel vano circolare formato dal serpente vaghissimo gruppo di più persone, cioè: Una regina, la quale seduta e cinta la fronte di aureo diadema, tiene sotto i piedi il capo del serpente e su le ginocchia un bambino a simbolo della Vergine Maria, cui è dedicata la Chiesa di Acerenza, e del suo trionfo, secondo la profezia, nel dover un giorno calpestare il tartareo drago. Un vescovo mitrato, vestito pontificalmente e che, genuflesso innanzi l’immagine della Madonna, riceve da un angelo, librato in aria, il pastorale, a simbolo dell’assistenza angelica e del voler del cielo, nella scelta e nomina primo pastore acheruntino dal nome Ughisio. Un giovine guerriero con spada al fianco e che stando in piedi alle spalle del vescovo, sporge fuori la destra per sostenere il pastorale, calato giù dall’angelo, nelle mani tremanti del detto vescovo, a simbolo dell’autorità civile e militare, in persona di Maria che approva con la sua presenza il novello rito religioso. Un pontefice, che tenendosi anche in piedi, stende la mano destra e di dietro la poggia sul capo del vescovo a segno di consacrazione, mentre nella sinistra stringe l’aurata chiave, a simbolo del principe degli apostoli.

6.- Fregiarsi tutta intera la schiena del serpente fino alla coda, da nove emblemi, i quali a guisa di medaglie, presentano nel dritto nove immagini sacerdotali e nel rovescio.

L’idea del Dio assolutamente trascendente ha accompagnato la polemica tra il mondo cattolico e quello protestante. Per questi infatti l’unica mediazione è quella di Cristo e l’unica sovranità è quella di Dio. Newman tuttavia osservava in proposito che anche i primi Padri della Chiesa non “hanno considerato la Vergine come un puro strumento fisico dell’Incarnazione di Nostro Signore, ma come una causa intelligente e responsabile”.

La cattedrale di Acerenza è comunque dedicata all’Assunta, nonostante, come abbiamo visto, l’edificio sia orientato tenendo presente il giorno 25 di marzo, giorno che la liturgia romana ha da sempre dedicato all’Annunziazione. Anche in questo caso vi è una precisa testimonianza ad Acerenza, ossia una chiesetta dedicata alla Vergine Annunziata.

Sorvolando comunque la storia delle due festività dedicate alla Vergine, si potrebbe affermare che tale variazione sia avvenuta al momento della Dedicazione della Cattedrale. La liturgia della Dedicazione di una chiesa seguiva infatti in diversi punti l’ufficio e le letture del giorno dell’Assunzione. Ciò ad indicare il legame profondo esistente tra la Chiesa fatta di pietre e la Vergine Maria, tanto da far dire al citato Newman che “i paesi e i popoli che hanno perduto la fede nella divinità di Cristo sono esattamente quelli che hanno abbandonato il culto mariano”.

I rimaneggiamenti dell’antica Cattedrale acheruntina, anzi la demolizione totale del vecchio edificio, obbedivano anche a delle scelte di campo decisamente nuove in quello scorcio del secolo XI. “Lo stile romanico, infatti, non è di origine cristiana, né un prodotto seguito ad una lunga crisi, come comunemente si ritiene da più parti. Esso deriva dalle basiliche dell’antica Roma e si afferma in un periodo di evidente rinnovamento e di riscoperta di antiche tradizioni della civiltà romana. “Lo stile romanico è un pagano convertito, un pagano che si è fatto prete, ha scritto Joris-Karl Huysmans. Stile duro, penitenziale, simboleggia la fede aspra del Vecchio Testamento”, con una serie numerosa di prescrizioni giuridiche, in perfetta linea con la riscoperta nei secoli dopo il mille del diritto romano, frammisto in molte zone dell’Italia meridionale a quello longobardo.

L’arte romanica fu l’espressione artistica di questo nuovo clima. Ebbe così origine un grande movimento che raggiunse il culmine nell’epoca gotica: il numero degli edifici fu ridotto per mezzo della loro fusione, anche se poi, all’interno dell’opera nuova sorta in questa maniera, pareti divisorie imponevano a ciascuno il posto che gli era riservato, come l’ambone e le recinzioni del coro che separavano il clero officiante dai fedeli. La preoccupazione di isolarsi dai laici per celebrare in tutta tranquillità i molteplici uffici religiosi della vita giornaliera era particolarmente forte nel caso in cui la c. doveva anche accogliere numerosi pellegrini ivi giunti a venerare le reliquie che vi erano custodite; fu per facilitare la loro circolazione che venne elaborata la formula del deambulatorio a cappelle radiali, caratteristica tipica delle chiese di pellegrinaggio. L’invenzione del corpo di San Canio sollecitò fra l’altro l’adeguamento della precedente cattedrale alle nuove esigenze di culto e di devozione.

L’idea imperiale in crisi. Si consolida quella della monarchia. “Et ideo virgo Maria dicitur regina et mater misericordie et non imperatrix, quia hoc nomen imperator est magis nomen terroris et rigoris, regina autem est magis nomen providentie et equitatis”.

La Vergine sembra essere anche presente all’origine dell’avventura normanna nel meridione d’Italia. Cfr. l’albero visto da Nabucodonor in sogno, piantato al centro della terra. “Un prete mentre dormiva nel suo letto, vide in sogno un bel giardino, in mezzo al quale vi era un albero più grande di tutti gli altri. Su quell’albero vi era una donna molto bella e, ai piedi dell’albero, Roberto il Guiscardo che guardava quella donna. All’improvviso, da una montagna elevata scaturì un fiume impetuoso, davanti al quale tutto il popolo fuggì. Roberto, rimasto solo, beve, per comando della donna, tutto il fiume. Successivamente arriva un altro fiume più grande del primo, che, sempre per comando della Signora, Roberto lo beve tutt’intero. Poi gli parve di vedere una terza inondazione d’acqua, così copiosa da sembrare che dovesse travolgere l’intero universo. Ma Roberto, sano e salvo, la bevve tutta, sempre per comando della Signora. Il monaco che compilò questa storia disse che la donna assisa sull’albero era la Vergine Maria”.

Il millennio si era aperto ad Acerenza con un prodigio avvenuto all’interno della Cattedrale; alla fine del secolo XI accadde un altro episodio clamoroso, ossia l’incendio che divampò in città, distruggendo quasi per intera la città e parte della stessa cattedrale già costruita. Anno 1090: mense augusti Acherontia admirandum in modum cremata est a se ipsa, et mortuus est Jordanus princeps. L. Protospata,

Acherontia civitas cremata est mense augusti, in tantum enim eodem vastata est igne, ut nulla domus, nullum inveniretur edificium quod non abigne consumptum deperierit. Homines etiam XXV eodem incendio mortui sunt. Romualdo Salernitano

Ultima modifica il Sabato, 27 Agosto 2016 19:54
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