Sabato, 17 Gennaio 2015 19:55

Familiarità con Cristo e profumo di Dio

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Una comunità parrocchiale alla scuola del vangelo

Oppido Lucano, 31 agosto 2008

Carissimi amici,

a distanza di un anno dal mio ingresso nella comunità di Oppido, sento l’esigenza di parteciparvi alcune riflessioni maturate nel corso di questi mesi.

Anzitutto ringrazio Dio che mi ha donato un altro anno di vita, il Vescovo, che ha avuto fiducia in me, e quanti hanno collaborato per rendere il clima parrocchiale sereno e gioioso, nonostante le piccole difficoltà che la quotidianità riserva. L’accoglienza riservatami, generosa e non scontata, la benevolenza donatami “a prescindere” mi fanno sentire già in debito nei confronti di chiunque. E spero di non sciupare le occasioni che la Provvidenza vorrà donare per significare con i fatti a tutti la mia gratitudine.

Così ugualmente chiedo perdono a Dio per la povertà della mia fede; a tutti coloro che non ho saputo accogliere, amare e servire nelle loro esigenze; a quanti non ho saputo dedicare tempo e a quelli che ho offeso con il mio comportamento o con la mia incoerenza. Anche il mio cammino di conversione è lungo e in salita e per questo vi chiedo ancora pazienza e preghiere.

1. Un fatto

In questi giorni sono rimasto particolarmente colpito da quanto vissuto in parrocchia il 15 agosto. Festeggiando l’Assunta abbiamo contemplato il compimento del nostro camminare sulle strade di Dio. Poi la sera, dopo la festa invece del riposo ci siamo rimessi in cammino per raggiungere il santuario di san Rocco a Tolve. Siamo strani? A prima vista, sì! A ben riflettere ho visto descritti la dinamica della vita cristiana e un tratto caratteristico di noi lucani. La vita del credente è tutta racchiusa nei verbi di movimento “entrare” e “uscire”; è quindi il camminare lo statuto fondamentale di ogni vivente che si fa pellegrino sulle strade del mondo per allenarsi a riconoscere Cristo che lo interpella nel volto del fratello che si incrocia. E di questo san Rocco è uno dei tanti testimoni e maestri. E poi non dobbiamo dimenticare che noi lucani siamo abitati dal demone dell’insoddisfazione. Tutte le cose che facciamo sì, sono buone, accettabili, ma si poteva fare meglio. E quel “si poteva fare meglio” costituisce la base della nostra ritrosia ad apparire e il punto di partenza di ogni giornata così come di ogni stagione della vita.

2. Il confronto con Cristo

Questa riflessione ha gettato luce sui pensieri che albergavano nel mio cuore e che mi interpellavano sullo stile del mio essere cristiano e del mio servire la comunità di Oppido. Senza nulla togliere al buon Dio che ha sempre la possibilità di sconvolgere i nostri pensieri con le sue sorprese, ho poi individuato nella parabola del seminatore del vangelo di Marco una valida griglia di lettura di ogni esperienza comunitaria di fede. Vorrei sinteticamente appuntare alcuni tratti che emergono dal testo per poi ricavarne spunti per il nostro stare insieme nel nome di Cristo.

•  Anzitutto il contesto. Perché Gesù ha raccontato questa parabola? Gli esperti di sacra Scrittura sono concordi nel rilevare che la parabola è stata usata da Gesù in un momento di crisi. Dopo una prima ondata di entusiasmo perché attirata da segni strepitosi, la gente si tira indietro quando si tratta di venire al dunque e non mancano amare costatazioni di Cristo: “... questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me » (Mc 7, 6).

Il disagio naturalmente riguarda anche i discepoli, letteralmente sgomenti perché… avevano lasciato tutto pensando di farsi una “posizione” e invece man mano prendono coscienza che la via proposta da Cristo è quella che porta a Gerusalemme, al Calvario! “Di ciò si meravigliavano e avevano paura “ (Mc 10,32).

Il testo sacro “funziona” quando entra nella vita del credente. La Bibbia non intende informare, ma trasformare il lettore. E la parabola allora fa affiorare le domande che rischiano di rimanere educatamente ben nascoste nel nostro cuore: perché Dio non mi fa migliore? Perché al nostro impegno non corrispondono risultati adeguati? Perché siamo chiamati a fare i conti con situazioni dolorose e con imprevisti imprevedibili? Perché che la parola di Dio non cambia il mondo in un baleno, non converte i cuori subito. Questa pagina del vangelo quindi viene proposta all’inizio quasi della narrazione di Marco proprio per educare il discepolo a guardare le situazioni con gli occhi di Dio, senza farsi sorprendere da quanto potrebbe accadere nella comunità

•  La risposta di Gesù è un invito a mettere i piedi per terra e a tener presente l’ambiente nel quale si opera. Anzitutto il mistero di tutto quanto rientra nella sfera della fede e della crescita nella familiarità con il Signore (perchè di questo in fondo si tratta) non può essere compreso con la categoria dell’efficienza. La comunità cristiana non è un’azienda ove si pongono in atto degli interventi e si valutano i risultati per vedere se si è in attivo o in passivo, non si può adottare la logica del rapporto costi/benefici… La chiesa è il luogo della proposta schietta e appassionata della familiarità con Cristo come criterio per colorare tutti i nostri giorni. E proprio perché “proposta” può non essere accettata, o trascurata, o poco considerata o respinta.

Quante volte andiamo in crisi a causa della esiguità di risultati! La parabola ci offre un modo diverso di vedere le cose fondando la fiducia in Dio (il seme è buono) e il rispetto della libertà personale.

•  Man mano poi Gesù introduce il credente a considerare gli ostacoli che rendono difficile il cammino. In primo luogo vi è la menzione di Satana, che viene e toglie la parola seminata. Cosa significa? Nella sacra Scrittura Satana è il guastafeste, colui che fa deviare lo sguardo, quello che porta nel cuore l’incomprensione delle vie di Dio. Concretamente la sua azione è finalizzata a far perdere di vista il senso del camminare sulle vie di Dio. Chi crede e pensa di poter avere più successo, più visibilità, più potere è come il seme mangiato dagli uccelli. E’ fuori strada! E’ in balia di Satana! Il cristiano sa di doversi spendere per gli altri; come il sale, che dando sapore cessa di essere; come la candela, che illuminando si consuma. Nei vangeli si insiste sulla presenza di Satana nella vita di Cristo sin dal suo apparire sulla scena della storia. Sarebbe stupido non considerare la sua presenza nella vita della comunità cristiana. Mania di grandezza, voglia di potere, ricerca di ricchezza sono segni che dicono del successo di satana nella vita del credente che si dovrebbe contraddistinguere per umiltà, per spirito di servizio, per generosa povertà.

E’ quanto mai necessario pregare perché il Signore purifichi la nostra fedeltà e ci renda forti nel riconoscere la tentazione del potere e saldi nel riaffermare il primato di Dio, unico punto di riferimento del nostro esistere.

•  Il seme senza radici invita a riflettere sull’essenza del nostro dirci cristiani: crediamo perchè così fan tutti, perchè ci conviene o perché siamo realmente radicati in Cristo?

Se si ama veramente una persona, non ci si riesce ad abituare alla persona amata. La novità di vita del credente ha il suo fondamento proprio nell’aver posto il centro del proprio essere nella voglia di vivere di Cristo, di imitarlo, di renderlo presente. Quante volte pensiamo di proporre Cristo, e invece proponiamo noi stessi contrabbandando Cristo.

Chi ama si spende per la persona amata: è disposto persino a morire! Chi non ama e vuol farsi vedere “legato” ad una certa persona lo fa esclusivamente per convenienza, per tornaconto personale, ma non ci tiene assolutamente ad una vera familiarità con il Signore.

Siamo invitati a fare i conti con il rischio dell’incoerenza. Chi crede veramente può star male nel vedere nella comunità atteggiamenti che nulla hanno a che fare con Gesù di Nazareth. Personalmente ritengo che sia doveroso richiamare con il proprio comportamento a uno stile più consono con gli enunciati evangelici senza la pretesa di giudicare il fratello. Se educare significa pazientare per amore, bene allora è con i fatti che dobbiamo dire il nostro essere ancorati a Cristo e non con le chiacchiere. Il primato è quindi da riconoscere alla testimonianza, ad una testimonianza istruttiva.

•  A soffocare la vita cristiana, infine, è la preoccupazione di guadagnare stima, spazio nella vita degli altri, soldi per poter essere indipendenti dagli altri. Chi è preoccupato di sé e del proprio futuro non avrà mai lo sguardo giusto sul prossimo. Quante volte il Signore ci ha messi in guardia contro la voglia di farci artefici del nostro futuro... Sia personalmente sia come comunità dobbiamo saper vivere di Cristo, mettendo il poco a disposizione nelle sue mani, perchè possa operare il miracolo. E il miracolo più bello, che viene ripetuto ogni giorno è quello della fede di quanti si lasciano portare per mano da Dio, illuminati dalla sua Parola e sorretti dalla sua Grazia.

•  Ovviamente è emblematica la figura del seminatore. E non del seminatore “umano”, ma di quello della parabola. Un agricoltore è attento quando sparge la semente: non si permette il lusso di farla andare lungo la strada, o tra i sassi o dove la terra non è preparata! Il seminatore della parabola è davvero strano: unica sua preoccupazione è spargere la “sua” semente con generosità…. tanto il seme darà comunque un rendimento che non si è mai visto! E’ un affermare solennemente che Dio semina la “sua” parola, il terreno non è sempre favorevole, ma il successo della semina sarà completo.

L’uditore della parabola ora è coinvolto: sa di essere il terreno della parabola e sa che il seme è stato già gettato con generosità. Tocca a lui ora decidere se essere pietra o spina o terreno fertile. E’ chiaro che solo il terreno è capace di fare spazio al seme, di accoglierlo, custodirlo e di farlo fruttificare…

3. Guardare all’oggi da credenti.

Questa pagina del vangelo ha il pregio di aiutare continuamente a guardare in faccia la chiesa senza far perdere la fiducia in Dio. Spesso, guardare alle nostre comunità significa in primo luogo rimanere colpiti dalle incoerenze o dai limiti degli uomini di chiesa o dal basso livello di conversione raggiunto. Come è diverso guardare alla nostra comunità a partire da quel “il seminatore uscì a seminare la sua semente..”: ogni giorno Dio continua a seminare sulle spine, sul terreno sassoso, sulla strada la “sua” semente. Sorge spontanea la domanda sulla ragionevolezza di un simile atteggiamento: ha senso seminare sulle spine, sul terreno sassoso, sulla strada? Nel caso del terreno e della semina non sarebbe ragionevole; nel caso delle anime invece questo è l’unico atteggiamento consentito a Dio! Il terreno sassoso rimarrà sempre tale, l’animo umano può cambiare! E’ questo il fondamento della nostra speranza e del nostro generoso impegno.

La fede che scaturisce dall’ascolto della parabola non è avventura di un momento, emozione passeggera o ingannevole. Perché essa porti frutti è necessaria la perseveranza.

Il cristiano sa di non poter adottare la logica della convenienza. A noi è data la possibilità di guardare e collaborare con Cristo, che ogni giorno “esce a seminare” prima ancora che si alzi il sole.

A me piace pensare alla parrocchia come al “campo di Dio”. Il mio ruolo e la mia presenza acquistano un significato a dir poco “liberante”. Non mi sento padrone di niente, né maestro di alcuno.

E’ bello sapere che niente e nessuno mi appartiene, ma che tutto è di Dio. E se il lavoro di Dio è prendersi cura di ogni singola anima, di ogni singola persona disseminando con generosità quanto è di “sua” appartenenza, ciò significa che come credente non posso sentirmi dispensato dal prendermi cura e appassionarmi alla crescita gioiosa di quanto Dio stesso ha posto nel cuore di ogni persona. E in tutto questo senza lasciarmi condizionare dai risultati, o da antipatie e simpatie, o da interessi di qualsiasi sorta.

Rileggere la parabola prima di cominciare un anno pastorale o una stagione della propria vita è come farsi il vaccino o sottoporsi a cure intensive in vista di probabili difficoltà. Per natura non sono né pessimista né ottimista; mi piace pensarmi cristianamente realista. Anche nel nostro piccolo corriamo il rischio di soccombere alle lusinghe dell’antagonista di Dio. Il rischio di adagiarci, di rinviare, di farci prendere dallo scoraggiamento, di arrenderci di fronte alle difficoltà; il rischio di distogliere lo sguardo da Cristo crocifisso, di sostituirci a Dio, di pensarci indispensabili per andare avanti; il rischio di servirci di Cristo per crescere personalmente; il rischio di servirci della chiesa per campare dignitosamente. La perversione di una vocazione è possibile sempre, in qualsiasi stato di vita: di qui l’esigenza di vegliare sul proprio cuore e di affrontare con coraggio ogni difficoltà non perdendo di vista la meta del proprio camminare.

Ci sono poi le tentazioni della superficialità e dell’egocentrismo che, in forme molto subdole, possono minare ogni esistenza cristiana. Voler attribuire a Dio quanto è richiesto alla nostra responsabilità significa disimpegnarsi elegantemente per farsi i fatti propri; è vero che Dio è il regista di tutto, ma noi siamo i suoi attori e non abbiamo il diritto di ammutinarci o, peggio, di recitare parti che non si trovano in alcun copione… senza Dio non si va lontano! Vivere il primato di Dio nella propria esistenza significa profumare di Dio. Difficile sì, ma non impossibile!

Non meno distruttiva, è l’ansia per il proprio domani. E’ come abbassare lo sguardo limitando il nostro orizzonte. La fiducia nel prossimo così come la fiducia in Dio sono possibili solo se si è in grado di alzare lo sguardo verso l’alto e riaffermare con forza a se stessi che l’unico aiuto che salva è quello che viene dal Cielo e che a noi viventi non è data altra possibilità per salvarci se non quella di deciderci per Cristo, di giocare tutto il nostro tempo scommettendo su Dio. In tutto questo non avere paura del ridicolo, dell’apparire strani agli occhi della gente. La diversità è costitutiva della nostra vocazione e sarebbe veramente un peccato cercare di mascherarla.

4. Le priorità

Consentitemi ora di puntualizzare alcuni aspetti che mi sforzerò, nonostante i miei limiti, di osservare nel mio vivere la fede in mezzo a voi.

•  Gratuità. Sin dal primo giorno della mia ordinazione ho percepito un regolare stipendio che mi ha garantito e mi garantisce l’autonomia economica. E in questo sono uguale a tutti i sacerdoti diocesani d’Italia. Il codice di diritto canonico, affrontando il problema delle offerte per le messe, con delicatezza mette in guardia contro “ogni apparenza di contrattazione o di commercio” (can. 947). Ho già detto con chiarezza e ribadisco che personalmente ritengo moralmente ingiusto pagare per i sacramenti. E ciò fondamentalmente per due motivi : 1) se i sacramenti sono segni efficaci dell’amore di Dio, sono gratuiti per natura! Così come sono gratuiti tutti i segni di amore! Altrimenti sarebbero “prestazioni”, e ciò è fuorviante. 2) quando un sacerdote amministra un sacramento o presiede la celebrazione, in primo luogo prega: mi farebbe un po’ senso pensare che il mio pregare sarà remunerato…. Ecco perché mi sento mortificato se qualcuno viene a “pagare” la messa o un funerale o un battesimo o un matrimonio. A me nulla è dovuto, se non il piacere e la gioia di camminare insieme in compagnia del Risorto. Ben differente è la sollecitudine responsabile di tutta la comunità che si fa carico delle spese legate alle utenze e alle attività della parrocchia. E di questo se ne discuterà nel Consiglio Pastorale, chiamato ad esprimersi anche in ordine alle messe plurintenzionali e alle collette in caso di matrimonio o funerale.

•  Parrocchialità. Ogni aspetto della vita comunitaria dovrà avere il suo momento di riflessione all’interno del Consiglio Pastorale, composto in primis dai catechisti, dai responsabili della carità e della liturgia e dai componenti il Consiglio per gli Affari Economici, nonché dai rappresentanti dei vari movimenti e associazioni presenti in parrocchia. La parrocchia non è il prete né tantomeno chi pensa di essere vicino al prete. Sono particolarmente allergico a tutte le forme di protagonismo e quindi sopporto malvolentieri ogni atteggiamento da prima donna. Vi chiedo sin d’ora perdono per tutte le volte che non sarò “educato” nel richiamare ad uno stile “familiare”. E questo perché per me la parrocchia è l’insieme dei familiari di Cristo, chiamati a vivere in un luogo sereno e dignitoso, capace di fraternità, in cui sia possibile vivere nella libertà spirituale testimoniando la gioia. E’ un qualcosa che mi sta profondamente a cuore, lo propongo e lo proporrò con passione senza la pretesa di cambiare le persone o atteggiamenti consolidati nel tempo. Alle sconfitte sono abituato, ma non rassegnato.

•  Primato della Parola. Se la Scrittura è la lettera di Dio inviata ad ogni credente, allora la scoperta del cuore di Dio nella parola di Dio diventa la differenza specifica tra una comunità cristiana e una qualsiasi altra realtà. Tutto quello che facciamo o viviamo deve avere nella Bibbia il suo fondamento e le sue motivazioni. Questo include la fatica della riflessione e il coraggio del sapersi far mettere in crisi dalla Parola. Ma è l’unico modo per non cadere nel rischio di crearci una religione a nostro uso e consumo.

•  La carità

“I poveri li avete sempre con voi”. Questa è la sfida che ci viene lanciata ogni giorno.

Ben vengano i gesti di attenzione verso tutte le situazioni di povertà presenti in ogni angolo della terra. Ma per non cadere nel rischio della filantropia o di una carità “pulita” dobbiamo sforzarci di aprire gli occhi intorno a noi e affrontare senza mezzi termini tutte quelle situazioni ove è richiesta la nostra vicinanza e il nostro coinvolgimento.

Degrado familiare, disagio sociale, devianze giovanili ci circondano; solitudine esistenziale, scoraggiamento, sfiducia nel futuro sono il vestito quotidiano di tante persone; povertà materiale, mancanza di lavoro, malattia affliggono tanti nostri vicini di casa.

Rileggendo la parabola del samaritano in Luca 10,29-37 comprendiamo a cosa siamo chiamati. Il samaritano “vede” (tutti guardano la scena, ma il samaritano “vede dentro”, guarda col cuore) “nota”, si accorge dell’altro, “scende dal proprio cavallo”, ossia interrompe i suoi programmi e spende tempo per l’altro. E’ presente con tutto se stesso. In lui tutto parla di azione premurosa: medica, fascia, carica, porta, consegna, fa curare, torna. Tutto si svolge in un contesto di rischio: perciò il sacerdote e il levita se ne sono andati, non hanno avuto voglia di “perdere tempo”. Il samaritano si lascia interpellare dalla situazione di bisogno, ma sempre con il massimo della discrezione: quando il ferito si riprende lo affida al altri continuandolo a sostenere, ma scompare dalla scena. Vivere la carità significa “servire” la crescita dell’altro e non servirsi dell’altro per crescere o per moltiplicare le buone azioni e nutrire il nostro nascosto orgoglio.

E’ necessario, inoltre, vivere la carità senza finzioni. Si dona ciò che ci appartiene e non ciò che appartiene ad altri! Il poco a disposizione offerto con generosità è segno di fede. Con i nostri piccoli gesti non cambieremo le situazioni, ma diremo nella quotidianità la compassione di Dio per ogni persona prescindendo da ogni calcolo. Non è questa la misura dell’amore cristiano?

•  Particolare attenzione ai giovani.

Molti con delicatezza mi hanno fatto notare che mi occupo “solo” dei giovani. Volesse il cielo fosse così! Il problema è che neanche dei giovani riesco ad occuparmi come dovrei!

Sono semplicemente affascinato dall’idea di una comunità parrocchiale capace di crescere valorizzando i carismi in essa presenti. Il sacerdote non è il factotum! Né sa fare bene tutto! E’ la comunità cristiana che si rende protagonista nell’annuncio, nella testimonianza e nella lode. La catechesi, la carità e la liturgia ci devono vedere tutti responsabili, ognuno per la sua parte.

Il catechismo vede la collaborazione generosa ed entusiasta di tanti che, con passione e competenza, contribuiscono alla crescita nella fede dei nostri ragazzi. In questa fase mi sembra opportuno insistere sulla cultura della santità. Mi sembra superfluo rilevare però il rischio che si corre nel considerare l’ora di catechismo come necessario tributo da pagare in vista dei sacramenti. Possiamo fare di più e meglio, ma come parrocchia non riusciremo mai a sostituirci al compito dei genitori che sono e rimangono i primi educatori nella fede dei loro figli. Una più stretta interazione con le famiglie è quindi auspicabile.

A livello giovanile …. Dobbiamo lavorare e molto inventandoci ogni cosa pur di accompagnare i giovani nella difficile fase della crescita proponendo il Dio di Gesù Cristo come l’unica valida risposta alla loro ricerca di senso. Non dobbiamo essere invadenti né dobbiamo guardarli dalla finestra. E’ inutile stare a discutere sulle devianze presenti nel nostro tessuto sociale. Quando il medico consulta il libro, il paziente muore… recita un vecchio adagio. Ogni agenzia educativa sa di poter operare contribuendo alla crescita sociale. Noi, come chiesa non possiamo fare altro che educare le coscienze proponendo la persona di Gesù Cristo come compagno di viaggio. Questo e niente altro.

Dobbiamo chiedere a Dio di aiutarci ad entrare nella vita dei giovani in punta di piedi, con delicatezza per appassionarli al bello e al vero, a ciò che è buono e utile. “L’educazione è opera del cuore, - scriveva san Giovanni Bosco-, e Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte e non ce ne mette in mano le chiavi.” Educare al senso di Dio, abituare a vivere in amicizia con Lui, significa formare credenti che poi da grandi profumeranno di Dio.

5. Un saluto e un augurio.

Si comprende facilmente che la strada da percorrere è tanta. Non manca la buona volontà e, cosa più importante, la fiducia in Dio.

Agli inizi di agosto con alcuni siamo stati a Santiago di Compostela. Lungo il cammino, incrociando lo sguardo degli altri pellegrini ci si salutava con un gioioso “buon cammino!” Sono sempre stato dietro a tutti e a quanti mi sorpassavano ho sempre donato il saluto con la certezza che mi avrebbe preceduto in quel di Santiago, essendo stato affidato a chi è più valido di me.

All’inizio di questo secondo anno, mi sia consentito immaginarmi sorpassato dai bambini che frequenteranno per la prima volta l’asilo, da quelli della prima elementare, da quelli che cominceranno il percorso dell’iniziazione cristiana, da quelli della cresima, dai giovani che hanno la forza di credere in se stessi e in Dio e da quelli che vivono di alcool, fumo, droga e sesso, da quelli che accedono all’università e da quelli che si sposeranno, da coloro che vivono con entusiasmo il loro matrimonio e da quelli che mascherano la fatica della vita di coppia, dagli anziani che vivono il dramma della solitudine e dai malati che con dignità affrontano l’ultima stagione della vita. A tutti indico Cristo e auguro “buon cammino!”

L’ultimo posto è il mio. Così sono rintracciabile da tutti.

mimì

Ultima modifica il Venerdì, 30 Gennaio 2015 14:40
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