Lunedì, 05 Settembre 2016 19:16

Eccomi. Sono qui, per il ministero episcopale, servo della santa Chiesa che è in Acerenza

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Omelia dell'arcivescovo in occasione della presa di possesso canonica. Acerenza 3 settembre 2016

Omelia, 3 settembre 2016, cattedrale di Acerenza

Carissimi fratelli e sorelle, carissimi figli, amati presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, cari seminaristi, ancora spettabili Autorità di ogni ordine e grado, convenuti qui nella famosa basilica cattedrale di Acerenza, dal cui nome e dalla cui fama, secondo alcuni prende nome la stessa Basilicata. Sono venuto, siamo venuti in gioioso pellegrinaggio in questo Giubileo straordinario della misericordia, in questa già tanto amata Città e in questa nobilissima Arcidiocesi, per invocare indulgenza e pietà dalla maestà di Dio SS. Trinità Amore: Cristo, misericordiae vultus, volto di misericordia del Padre, non ci farà mancare la luce del divino santo Spirito. Siamo qui, alla cattedra di S.Canio, insignita della dottrina del vescovo e imporporata del sangue del martire.

Chi poteva immaginare solo poco tempo fa? Chi osava desiderarlo? Chi poteva avere l’audacia di prevenire i pensieri di Dio? Ben lo afferma il brano del libro della Sapienza che in questa domenica XXII del tempo ordinario viene proclamato nella prima lettura: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? chi può immaginare cosa vuole il Signore? ... i nostri ragionamenti sono timidi e incerte le nostre riflessioni...Chi può investigare le cose del cielo?..” Nessuno può conoscere il volere di Dio se Egli stesso non gli donasse la sapienza e dall’alto non gli inviasse il suo santo Spirito. La sapienza è Cristo, il santo Spirito di Dio è il Paraclito. Il Capitolo della cattedrale gentilmente mi ha voluto donare l’anello sponsale del Vescovo: ringrazio e saluto i reverendissimi canonici nella persona del presidente mons. Antonio Cardillo. Nell’anello aureo a forma di croce vi è raffigurato Cristo pantocràtor, il Signore dell’universo, con le lettere Alfa e Omega, principio e fine, e l’iscrizione greca Jesoùs Christòs nika, Gesù Cristo vince. Si, siamo qui perché Gesù Cristo è il Signore della nostra vita, solo lui è il primo e l’ultimo, il definitivo della nostra esistenza e del nostro essere. E’ sua la vittoria sul male, sulla morte, su satana. Con la sua morte e risurrezione, con la sua Pasqua, ha vinto le tenebre e ci ha accolti nella sua ammirabile luce. E’ lui che vince, che mi ha vinto, che mi ha con- vinto, che convince tutti noi non con la forza, ma con il fascino della sua grazia e del suo amore.

Eccomi. Sono qui, per il ministero episcopale, servo della santa Chiesa che è in Acerenza. L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, nella brano della seconda lettera che abbiamo proclamato in questa sacra liturgia, ci illustra chiaramente nello Spirito Santo, quale è la mia missione insieme a voi, carissimi fratelli e sorelle in Cristo, nell’unico dono battesimale e crismale. Cari sacerdoti, abbiamo questo ministero per la infinita misericordia di Dio, per questo di fronte a tale compito cosi enorme e inimmaginabile non ci perdiamo d’animo. Al contrario, ci esorta l’apostolo a nome del Signore, a rifiutare le dissimulazioni vergognose, i comportamenti astuti, la falsificazione della parola di Dio, anzi annunciando apertamente la verità davanti alla coscienza umana e al cospetto di Dio. Noi non annunciamo noi stessi, io non sono venuto per annunciare me stesso, noi tutti in questa splendida basilica non siamo venuti per annunciare noi stessi: io, noi, voi, siamo qui per annunciare Cristo Gesù Signore, Via , Verità e Vita. Io vescovo sono il vostro servitore, non a causa mia o di altri, ma a causa di Gesù. Poi san Paolo, apostolo di Cristo, ci ammonisce e ci fa tremare: noi siamo vasi di creta! Si, siete venuti da tanto lontano per accogliere e salutare la mia povera e fragile persona, un vaso di creta, esposto alla possibilità di frantumarsi in ogni istante. Ma l’Apostolo non si riferisce solo a me, ma a tutti noi: è terribilmente vero, siamo dei deboli, ordinari vasi di creta. Allora questa magnifica manifestazione sarebbe del tutto inutile e paradossale. Ma. C’è un “ma” che fa la potente e straordinaria differenza. Io Francesco, piccolo vaso di creta, voi cari fratelli nel battesimo e nel sacro ordine, nella nostra fragilità portiamo un immenso tesoro: la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo! Quante volte ho gridato al Signore: sono un vaso di creta! Sono soltanto un vaso di creta! Cosa vuoi da me? E Lui ha mi ha sempre risposto: “ Vermiciattolo d’Israele, ti basta la mia grazia, nella tua debolezza manifesto la mia forza!”. E’ così, e piego il capo davanti a tanta misericordia, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da noi, e finalmente rifulga la luce dalle tenebre, rifulga nei nostri cuori.    

Nel brano del Vangelo odierno di S. Luca, proclamato solennemente in questa antica e bella cattedrale, in questa città posta sul monte perché tutti possano vederla, abbiamo ascoltato che una folla numerosa andava con Gesù: come siamo adesso, un popolo numeroso, il popolo di Dio, che cerca il suo Pastore, il suo Pastore bello e buono. Facciamo sempre così: stringiamoci numerosi e fiduciosi attorno al Cristo, il pastore grande delle pecore, il vescovo delle nostre anime, che mette al sicuro nell’ovile le novantanove e va in cerca di quell’unica perduta fra i dirupi e le spine, preda del freddo, della fame e dei lupi. Siamo felici di andare con Gesù, lui è la luce del mondo, chi lo segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. Ad un tratto, afferma il sacro testo, Egli si voltò verso i discepoli e la folla e disse, anche adesso il Signore si volge verso di noi e ci parla, ci da il programma, da il programma a me , ai cari sacerdoti qui radunati, ai fedeli laici, agli uomini di buona volontà di questa amata comunità diocesana: “ Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami” tutti gli altri e tutto il resto, “ e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. La sequela di Cristo, l’andare con lui, è questione di amore, un amore totale, appassionato, libero, esigente, per questo gratificante. Lui non ci chiede di togliere agli altri, alle persone più care di questa vita; non ci chiede di deprezzare il mondo da lui creato, di disprezzare la vita che lui ci ha donato, ma ci chiede di amare di più, di donarci di più, di offrire tutto di noi a lui, di imparare da lui che è mite e umile di cuore, di poggiare il nostro capo sul suo cuore e ricevere soltanto da lui quella intensità di amare di più gli altri anche a costo della propria vita. Il Signore Gesù nel suo vangelo ci dona il programma del mio episcopato e del nostro cammino diocesano: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo...Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi , non può essere mio discepolo”. E cosa è questa croce? Questo incarico che dobbiamo tutti portare, se vogliamo essere veri discipuli Domini? Cos’è questa morte quotidiana che ci porta alla vera vita? Questo pellegrinaggio giubilare che dobbiamo percorrere dietro di Lui portando il peso della croce? Cos’è questa rinuncia totale al nostro avere e ai nostri averi? E’ la rinuncia al nostro io, il nostro io egocentrico, chiuso, sordo, violento, terrorista. Cristo mette questa condizione, questa conditio sine qua non, per seguirlo veramente e sinceramente: c’è in noi, nel profondo del nostro cuore, c’è sempre qualcosa che ci isola da Lui, che ci imprigiona, che ci schiavizza ed aliena, che ci rende lontani da Dio e dai fratelli, in una parola c’è il peccato, che è l’idolatria di noi stessi. Il peccato, come afferma S. Agostino, è amor sui usque ad contemptum Dei, amore di sé fino al rifiuto di Dio, mentre la fede viva è amor Dei usque ad contemptum sui, amore di Dio fino al sacrificio di sé. Chi vuol salvare la propria vita con l’egoismo, cioè senza Dio e il suo Cristo, la perde per l’eternità, chi invece la perde per Cristo, cioè la dona a lui totalmente, la guadagna per sempre: lo assicura il Signore. Alla luce di tutto quanto ascoltiamo nella parola di Dio e nel magistero della Chiesa viene l’agire; prima il silenzio dell’ascolto, poi la sicurezza dell’azione; prima il discernimento della comunione e della autorità, poi l’opera congiunta e fraterna; prima l’umiltà del confronto e del dialogo e poi la gloria del successo e del risultato. Lo dice Gesù nel vangelo odierno: “ Chi di voi volendo costruire non siede prima a calcolare e a vedere se ha i mezzi?...Non siede prima ad esaminare se può affrontare?...Per evitare che se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo – Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Il Vangelo! Il Vangelo ci indica tutto: dobbiamo ascoltare insieme, pregare insieme, programmare insieme, lavorare insieme, soffrire insieme, gioire insieme, portare il giogo dolce e leggero di Cristo e con Cristo insieme, fedeli chierici e fedeli laici. Dio ci scampi di essere tutti, sacri ministri e fedeli laici, derisi e biasimati d’aver mancato al dovere e al piacere della comunione fraterna e del servizio vicendevole.  

  Per il resto, miei cari fratelli e sorelle, io sono vostro, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio. L’Arcidiocesi mi ha donato il prezioso pastorale: ringrazio il Collegio dei Consultori e ringrazio tutti nella persona del carissimo e reverendissimo canonico don Filippo Nicolò, rettore del Seminario maggiore di Basilicata. Don Filippo per quasi tre anni ha retto come presbitero amministratore questa fervida e devota comunità cattolica diocesana, collaborato alacremente dalla curia, dagli uffici, dai parroci e gli altri presbiteri, dai diaconi e dagli altri organismi operanti in sede vacante, compresa la partecipazione dei fedeli laici. Gli siamo tutti debitori di affetto, gratitudine, stima: il Signore, che ricompensa chi serve in umiltà, gli conceda abbondanti frutti di grazia e di gaudio interiore nel continuare la sua missione di educatore dei giovani presbiteri della Basilicata, pur continuando a donare il suo saggio ed esperto contributo al nostro presbiterio e alla diocesi. Ebbene il prezioso pastorale, con l’effige di Maria SS. Immacolata Assunta in cielo in anima e corpo, di S. Canio nostro glorioso patrono , di S. Francesco di Assisi e di S. Francesco di Paola, miei personali protettori, mi ricorderà sempre che io sono in Cristo il vostro pastor e il vostro auctor, nel senso che debbo prodigarmi con tutte le mie forze per procurarvi il “pasto”, il cibo salutare che proviene dalla bocca e dalle mani di Cristo, ossia la parola di verità e i sacramenti di carità, nel contempo sono chiamato a impegnarmi quanto più posso a farvi crescere nella via dei comandamenti e della testimonianza cristiana, difendendovi con il pastorale dagli errori, abusi e nemici che purtroppo non lasciano tregua al gregge del Signore . Il mio preesse deve essere prodesse, direbbe il vescovo S. Agostino, il mio essere a capo deve essere necessariamente un essere ultimo nel servizio a favore di tutti voi, che Dio nella sua bontà infinita e provvidente mi ha affidato. Ma anche io sono affidato a voi da Dio. Vi chiedo di accogliermi, amarmi, custodirmi, comprendermi, perdonarmi: esercitiamoci a vivere reciprocamente le quattordici opere di misericordia a cui questo anno santo speciale ci invita pressantemente. Mi sento unito al papa Francesco, a cui con il lumen fidei e con amoris laetitia, esprimo a nome di tutti, la gioia della comunione e dell’obbedienza: mi ha scelto e ci ha scelti per camminare in Cristo per le vie, per i centri e per le periferie dell’arcidiocesi e del mondo, dei cuori umani e delle attese dei più deboli e dei più piccoli tra di noi. Mi sento unito e ci sentiamo uniti all’arcivescovo metropolita di Potenza, S.E.R. mons. Salvatore Ligorio, e a tutti gli Arcivescovi e Vescovi della Conferenza Episcopale di Basilicata, nonché ai reverendissimi Vescovi emeriti lucani, fra i quali mons. Michele Scandiffio, mons. Francesco Cuccarese, mons. Francesco Pio Tamburrino, emerito di Foggia, nativo di Oppido. Mi sento unito e ci sentiamo uniti al caro vescovo Mons. Giovanni Ricchiuti, ora vescovo di Altamura-Gravina-Aquaviva delle Fonti, mio predecessore vescovo, che con giovialità coinvolgente e impegno fattivo ha guidato nel Signore l’Arcidiocesi acheruntina. Ci sentiamo uniti a tutta la Chiesa una, santa , cattolica e apostolica, Sposa di Cristo, fuori di essa non c’è salvezza. Aderiamo con la mente e con il cuore alla comunione dell’unica fede, alla grazia dei sette sacramenti e alla via dei dieci comandamenti, nella costante preghiera che il Signore Gesù ci ha insegnato di rivolgere al Padre nostro che è nei cieli. Mi ha sempre colpito un episodio della vita della beata Teresa di Calcutta, ormai prossima alla canonizzazione. Un giornalista le chiedeva quali e quanti fossero i problemi più gravi del mondo, lei lapidariamente rispose:” Due. La mia e la sua conversione!”. L’impegno principale della nostra vita e’ la nostra permanente e continua conversione: “ Il tempo è compiuto, il regno dei cieli è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”, parola di Gesù. Mi affido alla potente intercessione di Maria SS. sempre Vergine, Madre di Dio e della Chiesa, tanto venerata e amata in Basilicata e nella nostra Arcidiocesi, alla intercessione di S. Canio, S. Mariano, S. Laviero, del beato Egidio da Laurenzana, del beato Domenico Lentini che sempre mi suggerì questa sua parola:” Gesù Cristo è il mio bene, Gesù Cristo è il mio tesoro, Gesù Cristo è il mio tutto!”. Sia lodato Gesù Cristo!

Ultima modifica il Lunedì, 05 Settembre 2016 19:20
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