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Martedì, 12 Aprile 2016 14:07

La riconciliazione

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Breve sintesi storica e dottrinale sul sacramento per i genitori dei ragazzi della prima confessione

La penitenza/riconciliazione

Introduzione
 “A catechismo abbiamo imparato che i sacramenti sono sette. A mo’ di introduzione, così, per partire, potremmo chiederci se c’è una logica nella scelta di quei sette segni da parte della Chiesa. Se l’insieme di gesti che formano il linguaggio per il dialogo Dio-uomo abbia in sé nel suo complesso, un significato, se magari disegni un volto dell’essere cristiani, o Chiesa.
Per rispondere a questa prima domanda potrebbe essere utile scomporre quel “sette”, e vedere che lo si può fare ottenendo un 3+2+2. Cosa vuol dire?
Tre sono i sacramenti che chiamiamo “dell’Iniziazione Cristiana”: Battesimo, Confermazione, Eucaristia; i sacramenti che plasmano il Figlio di Dio che è in noi (Battesimo), lo abilitano ad essere testimone autorevole di Cristo e portatore dello Spirito Santo (Confermazione) e lo rendono membro della famiglia dei Figli di Dio che siedono (e sederanno, nel Regno…) a mensa col Padre (Eucaristia).
Due sono i sacramenti più difficilmente definibili con una parola: sacramenti della scelta di vita? Del servizio? Della responsabilità? Lasciamo perdere.
Gli ultimi due (penitenza e unzione dei malati) sono i sacramenti che dicono e trasmettono il perdono dei peccati, che rendono presente il volto misericordioso del Padre verso i suoi figli, tutti bisognosi di essere riaccolti e risanati, come figli prodighi (più o meno spendaccioni… poco importa).
La nostra riflessione parte da qui.

1) Una parola “laica”: Riconciliazione

Mai, forse, come in questo scorcio finale di millennio in cui il mondo sta diventando un “villaggio globale” percepiamo la sua complessità e frammentazione in tantissime piccole “contrade”: culture, popoli, religioni; frammentazione che avvertiamo come pericolo nel momento in cui vediamo popoli e culture interagire molto spesso in un rapporto conflittuale. Avvertiamo chiaramente che ciò che ci divide, molto spesso, affonda le sue radici nella storia lontana; che le divisioni fra queste “contrade” non dipendono se non in minima parte dalla volontà di chi vive oggi. Proprio quella che chiamiamo già familiarmente “globalizzazione” fa emergere violentemente un bisogno di riconciliare l’umanità, di sanare le fratture fra popoli, religioni, nazioni, universi culturali alla ricerca di una vera possibilità di vivere per tutti.
Dal microcosmo dell’esperienza individuale fino al macrocosmo dei rapporti fra i popoli si fa esperienza di eventi che rompono le relazioni: le offese diventano le guerre, gli stili di vita sbagliati diventano veri e propri “peccati sociali” che evidenziano il potere distruttivo dell’uomo a livello cosmico: il consumo di droga (che ne implica la vendita), la ricerca eccessiva della ricchezza/benessere (che comporta l’impoverimento di qualcuno), ecc.

2) Una parola religiosa: Penitenza

La tradizione biblica ha da sempre interpretato la storia e la presenza in essa del male, come conseguenza di una rottura primordiale delle relazioni con il Creatore, rottura causata dalla presunzione dell’uomo di voler essere “come Dio” (Cfr. Gen 3,5). Tutto il cammino del popolo di Dio da Abramo in poi così si può delineare come la ricerca di una riconciliazione fra l’uomo peccatore e Dio, offeso e sminuito dal peccato di presunzione dell’uomo.
“Penitenza” è ciò che deve fare ogni uomo per dimostrare a Dio che non fa sua la presunzione/peccato di chi l‘ha preceduto, penitenza è l’umiliarsi dell’uomo per “dire”, affermare la grandezza di Dio, penitenza è ciò che deve fare l’israelita espulso dalla Comunità a causa delle sue trasgressioni alla Legge di Mosè, penitenza è ciò che compie il popolo in giorni particolari ricordando le grandi opere di Dio, osservando il silenzio e il digiuno, domandando in coro il perdono per le ingiustizie commesse soprattutto a danno dei poveri.
La parola penitenza insomma rientra in una visione del mondo e della vita per la quale, a causa di un’infedeltà alla Legge, l’uomo deve umiliarsi e invertire la rotta, cambiare vita per essere di nuovo gradito al Dio che ha dato la Legge e concesso i favori (misericordia) di cui si fa continuamente memoria.
Il richiamo dei profeti va nella direzione di una forte spiritualizzazione del tutto: la conversione profonda del cuore, questo è ciò che vogliono quegli innamorati di Dio.

3) Un evento rivoluzionario:
    Gesù, il riconciliatore che non chiede penitenza

All’interno dell’esperienza del popolo ebraico, un’esperienza caratterizzata da una fortissima ricerca di fedeltà alla “Legge” (di Mosè), si colloca la figura di Gesù di Nazaret: un Ebreo capace di rivoluzionare il volto di Dio in un modo così radicale che anche i suoi seguaci hanno fatto (e per certi versi fanno tuttora) moltissima fatica ad accettare nella sua più profonda e radicale originalità.
All’inizio della sua predicazione Gesù riprende il grido profetico della “conversione”, il tema del ritorno a Dio legato però ad un’espressione spesso sottovalutata: “credere al Vangelo” (cosa significa?). Fra le parole più incisive i suoi discepoli ricordano alcune parabole come “la pecorella smarrita”, “la dramma perduta”, “il Figlio prodigo”.
Ciò che più incide e scandalizza però è il suo atteggiamento verso i peccatori. I suoi incontri con i trasgressori abituali della Legge sono infatti segnati dall’accoglienza, dal perdono offerto in cambio di una parola di pentimento. Le sue battaglie sono combattute contro i cosiddetti “giusti” in difesa dei “peccatori”; i primi rappresentati soprattutto dal gruppo dei Farisei, convinti di essere i più graditi a Dio a motivo della loro osservanza di quel cumulo di precetti che loro chiamano “Legge di Mosè” (e che Gesù contesta chiamandoli “precetti di uomini”), i secondi rappresentati da categorie come Prostitute e Pubblicani (disonesti esattori delle tasse) che spesso trovano accoglienza e benevolenza presso il Maestro di Nazaret. Fra tutti ricordiamo quella peccatrice che (Cfr. Lc 7,36-50) si accosta a Gesù mentre è a cena nella casa di un Fariseo, Simone, e piange bagnando i piedi di Gesù per poi asciugarli coi capelli e profumarli con il profumo che aveva portato con sé.
Gesù si presenta come un “leader contro il male” fisico e morale, un leader che però non si fa fustigatore di difetti (come era, ad esempio, Giovanni il Battista), ma compagno di viaggio dei peccatori, in fila con loro al Giordano dove il Giovanni battezza, tentato nel deserto, agnello sacrificato sul Calvario. Gesù si fa penitente coi penitenti, e all’interno di una missione di questo tipo “perdona i peccati” scandalizzando ulteriormente chi riteneva questo gesto una prerogativa esclusiva di Dio.

4) Un interprete autorevole: S. Paolo

Quella che poteva restare una storia drammatica, sfociata in un’incomprensione totale da parte dei contemporanei e quindi nel pericolo di essere dimenticata per sempre, aveva bisogno, per diventare parola di salvezza e liberazione universale, di un interprete capace di coglierne i meccanismi senza la paura di apparire rivoluzionario. Tale è l’esperienza di un certo Saulo, divenuto Paolo dopo una fortissima esperienza mistica che gli ha fatto cogliere la tremenda verità della risurrezione.
È lui che dà alla Chiesa la spiegazione più chiara e profonda di cosa è successo nei trentatré anni di vita di Gesù affermando che è semplicemente cambiata la logica del rapporto fra Dio e l’uomo: non è più l’uomo che deve farsi penitente a causa del suo peccato e osservare una legge che lo renda giusto davanti a Dio. È Dio stesso che in Gesù si è fatto uomo per prendere su di sé il peso del peccato, dimostrando così all’uomo che, da parte sua non c’è risentimento, né rabbia per il peccato. C’è invece una volontà di riconciliazione che l’uomo deve solo accettare con fede, con riconoscenza, con gioia, ricambiando l’amore, non stando sottoposto all’angheria di una Legge ma vivendo con generosità e libertà un dono di sé senza limiti e misure né condizioni (si leggano a tal proposito le due lettere fondamentali di Paolo: ai Galati e ai Romani).
In questo contesto parole antiche come penitenza, Legge, misericordia, vengono rilette in una chiave nuova: la “Legge” appare come una maestra che ha insegnato al popolo eletto come vivere in modo nobile, perseguendo i valori che Dio ama (ma non può colmare l’abisso che separa l’uomo da Dio, abisso che si rivela sul piano dell’amore in Gesù), “misericordia” è l’atteggiamento normale di Dio che vuole piegarsi sull’uomo per elevarlo alla sua dignità di Figlio, “penitenza” diventa l’umiltà con cui l’uomo è chiamato ad accettare di esser amato senza condizioni, nella sua debolezza (e non è certo facile!), senza poter vantare nessun merito davanti a Dio se non quello di essere contento, credere davvero (fede) che il Padre lo ami così tanto. La vita del cristiano insomma è sottratta alla logica del merito e della bravura umana, e affidata alla logica dell’umiltà. Il pensiero di Dio non può più schiacciare il discepolo a causa della sua indegnità ad essergli vicino, ma consola a causa della pace data dalla certezza di essere amato.
In questo contesto anche altri aspetti vengono riletti con un’ottica diversa dal cristiano rispetto all’ebreo e quindi integrati in una visione positiva dell‘esistenza e di Dio: il dolore non è più il mezzo con cui Dio punisce, semmai attraverso di esso Dio educa il discepolo a prendere su di sé il peso del male del mondo, come Gesù; attraverso il dolore che Dio permette per il discepolo quest’ultimo è chiamato a condividere col suo Creatore la passione per il mondo, l’amore per l’umanità.
È proprio perché il Vangelo è così: un’offerta di riconciliazione il cui “prezzo” è già stato pagato, che gli apostoli possono annunciare la pace e invitare tutti i popoli a far parte di un nuovo popolo di Dio: il popolo di chi si sente riconciliato e quindi può riconciliare tutti gli uomini con Dio. E forse è perché viene annunciato un Vangelo così (non dimentichiamo che “Vangelo” significa “Buona Notizia”) che esso trova spazio e diffusione rapidissima nel mondo che fu pagano: un mondo che era stanco di divinità bizzose, perennemente scontente dell’uomo, imprevedibili nelle loro reazioni, solo vogliose di succhiare sangue agli uomini (sotto forma di sacrifici di varia natura).

Proviamo a trattenere alcune idee

Per diversi motivi parlare di riconciliazione, ai nostri giorni forse più che in altri, è importante: le rotture di rapporti e relazioni sono forse più evidenti che mai.
In una visione religiosa biblica questa rete di rotture è stata vista come conseguenza di una Rottura prima: quella dei rapporti con il Dio Creatore. La storia non è altro che il dipanarsi della continua ricerca che Dio fa di risanare questa rottura.
Gesù si presenta come un riconciliatore fra Dio e l’uomo, ma non chiede penitenza, “solo” fiducia nella capacità e volontà di Dio di perdonare e andare d’accordo con l’uomo, e l’umiltà per lasciarsi perdonare.
S. Paolo: interprete autorevole, coglie che è cambiata la logica dei rapporti: Dio  e l’uomo si incontrano al livello della debolezza dell’uomo, non sul piano della santità di Dio, purché l’uomo si lasci amare/riconciliare con Dio.
 
5) Nella vita della Chiesa

L’utopia di Gesù di vedere gli uomini convertirsi, cambiare vita, iniziare ad amare a tutto tondo, amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come Lui ci ha amati; in una parola: a vivere da Figli di Dio a motivo dell’amore con cui da Dio siamo amati, si scontra ben presto con la realtà: quella dell’uomo che non riesce se non episodicamente a cambiare vita “a motivo dell’amore”, e quand’anche lo fa il peccato è sempre in agguato.

Agli albori della vita della Chiesa troviamo piccole Comunità formate da cristiani divenuti tali da adulti. È un cristianesimo caratterizzato da un grande fervore, da un’intensa vita comunitaria, e da una situazione di conflittualità con il mondo esterno.
In questo contesto il peccato che tiene desta l’attenzione della Chiesa obbligando il penitente a confessare il suo delitto a qualcuno, in questo momento è quello grave: gravi delitti contro le persone, cedimenti di fronte alla persecuzione e conseguente idolatria (sacrifici offerti agli dei pagani per sfuggire alle condanne delle autorità). Il perdono dei peccati “di routine”, quelli legati alla vita quotidiana, alla qualità dei rapporti umani, alla vita personale, è ottenuto da Dio attraverso la preghiera, l’elemosina, il digiuno, non prevede però momenti rituali di “confessione”.
Così il peccato grave di uno diventa un dramma comunitario da vivere comunitariamente mediante la correzione fraterna e la preghiera della Comunità (Cfr. Mt 18,15-18) e, per i peccati più gravi, mediante l’allontanamento dalla Comunità e una successiva riconciliazione preceduta da una penitenza seria e prolungata (emblematico, per questa forma penitenziale, resta l’episodio con cui il Vescovo milanese Ambrogio impone all’imperatore Teodosio la penitenza pubblica allontanandolo così dai sacramenti a causa di un eccidio ingiustificato di cui si era reso protagonista a Tessalonica).

Quando la Chiesa inizia a diffondersi formando Comunità sempre più grandi e sempre meno preparate da un serio itinerario di ammissione (catecumenato), inizia anche un certo rilassamento morale e una minore presa dei legami comunitari fra le persone.
Globalmente i vescovi, attenti ai cambiamenti dei tempi e delle situazioni, si dimostrano capaci di prendere le misure adeguate ai bisogni nuovi di una Chiesa che sente il bisogno di configurare un’istituzione stabile, organizzata anche per la disciplina della penitenza.

a) Chi commetteva una colpa grave doveva farne confessione segreta al vescovo o a un presbitero suo rappresentante. Costui mostrava al peccatore il contrasto tra l’insegnamento del vangelo e la colpa commessa, ed esortava alla conversione. Dopo questa confessione si veniva affidati alla cura spirituale di un diacono o, più recentemente, ammessi nel “gruppo/ordine dei penitenti” e si iniziava la penitenza pubblica.
b) L’ammissione nel gruppo dei penitenti avveniva il mercoledì delle ceneri con la benedizione e imposizione da parte del vescovo della cenere e del cilicio. Questo rito assume la caratteri¬stica di “espulsione dalla comunità” ricalcando la tipologia di Adamo cacciato dal paradiso terrestre. Ciò non significa che il penitente fosse tagliato fuori totalmente dalla chiesa: l’espulsione esprimeva la proibizione di partecipare all’offerta e alla comunione eucaristica. Normalmente a Roma i penitenti si facevano allontanare, come i catecumeni, dopo la liturgia della Parola. Per essi c’era poi un ricordo particolare nella preghiera dei fedeli.
c) Il periodo della penitenza era un tempo fatto di mortificazioni, digiuni, elemosine, preghiere che dovevano sollecitare ed esprimere la conversione interiore.
d) La riconciliazione dei penitenti, salvo i casi di pericolo di morte, avveniva dopo alcuni anni durante la veglia pasquale o, a partire dal VI secolo, il giovedì santo. Il vescovo imponeva le mani su ciascun penitente e implorava il perdono di Dio; seguiva l’abbraccio di pace; quindi i penitenti venivano condotti per mano verso l’altare per celebrare l’eucaristia.


La struttura del procedimento penitenziale resta sostanzialmente identica per secoli. Ma un po’ alla volta si fa strada la tendenza a sminuire l’importanza dei rapporti interpersonali (peccatore vescovo comunità), si accentua la preoccupazione di applicare numerose norme, le quali danno alla celebrazione della riconciliazione un certo carattere impersonale. Si nota inoltre un allungarsi del tempo richiesto per la penitenza, mentre le pene vengono comminate più in riferimento ad una astratta catalogazione di peccati che in rapporto alla situazione concreta dell’uomo peccatore. Il regime penitenziale molto austero si accompagna infine ad un numero elevato di proibizioni che a volte permangono anche dopo l’avvenuta riconciliazione. Tra questi ricordiamo la proibizione di prestare servizio militare, di accettare cariche pubbliche, di esercitare il commercio, di accedere al ministeri ecclesiali, di avere rapporti sessuali con il coniuge.
Esagerazioni?  Difficile dirlo, fatto sta che tutti questi motivi concorrono ad innestare un processo di decadenza di questo tipo di celebrazione della penitenza. Ne sono segni evidenti il minor impegno dei penitenti, la scarsa attenzione che la comunità comincia ad avere nei confronti dei peccati, l’instaurarsi   lento ma inesorabile   di un clima di indifferenza e di individualismo, ma soprattutto la tendenza a rinviare la penitenza fino al momento della morte. In definitiva, la prassi penitenziale, resa molto severa, diventa sempre meno adatta alle reali possibilità di coloro che ne hanno bisogno.

 
6) Una prima svolta: la penitenza tariffata  e la confessione frequente

Nel 589 i Padri della chiesa di Spagna, riuniti a Toledo per un sinodo, ritengono necessario porre la loro attenzione su una pratica nuova che andava diffondendosi:

“…Abbiamo saputo che in certe chiese di Spagna i fedeli fanno penitenza dei loro peccati non secondo la forma canonica, ma in modo scandaloso: ogni volta che hanno peccato chiedono di essere riconciliati dal presbitero. Per reprimere una così esecranda audacia la nostra santa assemblea ha decretato che si dia la penitenza secondo la forma canonica stabilita dai nostri Padri...”

Questo testo è come l’atto ufficiale di nascita d’una pratica celebrativa nuova della riconciliazione; nell’atto di riprovarla i Padri di Toledo ci fanno sapere che essa esisteva e stava prendendo piede. La nuova pratica si attuava così: un fedele, consapevole d’aver commesso un peccato d’una certa gravità (col tempo si cominciarono a confessare anche peccati non gravi), andava da un prete e gli confessava il proprio peccato, dicendosi disposto a espiare la propria colpa con un’adeguata azione penitenziale. Il prete gli assegnava allora la penitenza (detta “tariffa”, donde la qualifica di “penitenza tariffata” data a questa prassi celebrativa) quale era indicata nel Penitenziale (manuale ad uso dei confessori che conteneva l’elenco dei peccati e delle pene/tariffe corrispondenti). Eseguita l’opera penitenziale, il fedele veniva ri¬conciliato.
La novità è nella frequenza con cui avviene la riconciliazione più che nella maniera in cui questo sacramento viene ora espresso sul piano della celebrazione. Se la sequenza: confessione, imposizione della penitenza, esecuzione della medesima, riconciliazione ricalca l‘antica e classica prassi, ora però il tutto avviene privatamente e ripetutamente: il gesto celebrativo coinvolge il singolo fedele e il  sacerdote, e non più la Comunità Cristiana.
Questa pratica veniva dagli ambienti monastici irlandesi; no¬nostante le opposizioni si impose nel VII secolo e durò almeno fino al XII secolo.

7) La svolta del XII secolo: la penitenza sostitutiva

Le azioni penitenziali che il confessore imponeva al penitente erano normalmente di lunga durata ed afflittive. Nacque, a poco a poco, l’idea (una vera “trovata”) di commutare lunghi periodi di penitenza con atti penitenziali più intensi e gravosi, ma di durata più breve; oppure di riscattare i lunghi periodi di penitenza con offerte in denaro, con celebrazioni di messe, o delegando altri a far penitenza al proprio posto, dietro pagamen¬to di un compenso.
Balza agli occhi il “rischio” insito in questo modo di proce¬dere: la prassi celebrativa diventa veicolo per trasmettere un’idea distorta di penitenza conversione riconciliazione, per favorire una visione che identifica sempre più la penitenza col gesto esteriore, con l’ope¬ra penitenziale anziché col pentimento.
Di colpo, nella seconda metà del XII secolo, i libri Peniten¬ziali cadono in disuso, le penitenze diventano sempre più simbo¬liche e si comincia a dare l’assoluzione subito dopo l’accusa. Ab¬biamo qui la base della penitenza moderna. Gli elementi costitu¬tivi della celebrazione penitenziale (accusa dei peccati   itinerario penitenziale   riconciliazione) ora costituiscono un unico e pun-tuale atto celebrativo privato in cui i protagonisti sono il confessore e il penitente.
Per uno strano paradosso, mentre da una parte si cerca di rendere più facile il perdono, d’altra parte si tende ad assolutizzare l’unica via al perdono stesso. Rendendo di facile accesso la grazia sacramentale, si tende a rendere obbligatorio il perdono sacramentale, a scapito di altre forme di penitenza. Idee quali conversione, penitenza... cessano di aver rilievo: tutto viene ad appiattirsi su un unico orizzonte celebrativo: l’esperienza della penitenza coincide con l’esperienza del confessarsi.
Un’equazione pratica si viene gradatamente a stabilire: più si è cristiani, più ci si confessa e più ci si confessa, più si è cristiani. In questa linea va capito il canone 21 del concilio Lateranense IV (1215) che impone a tutti i fedeli l’obbligo di confessarsi almeno una volta all’anno. Questa norma diverrà uno dei “precetti della chiesa” e il “distintivo” del cristiano cattolico.

 
8) Il concilio di Trento

Nel 1551 il concilio di Trento, celebrando la sua XIV ses¬sione, intende affrontare i numerosi problemi scatenati dalla Riforma Protestante, fra questi il problema della Confessione. Il concilio riafferma tutti i capisaldi dottrinali su cui si basa la dottrina cattolica della penitenza e, mettendo da parte le questioni disputate, organizza un’esposizio¬ne completa della dottrina sul sacramento. Tale esposizione consta di nove capitoli:
la penitenza è sacramento vero e proprio, istituito da Cristo per rimettere i peccati commessi dopo il battesimo; base biblica di questa affermazione è il testo del vangelo di Giovanni 20,23: “Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete non saranno rimessi”;
la penitenza è un sacramento distinto dal battesimo;
per la perfetta remissione dei peccati sono necessari tre atti: la contrizione, ovvero un dolore vero, non solo formale, per i propri peccati, la confessione, dovuta necessariamente solo per i peccati “veramente mortali”, facoltativa per gli altri, la soddisfazione, che ha valore medicinale, strumento per mettere il peccatore sulla strada di un modo diverso di vivere.
L’assoluzione è un “atto giudiziale” e non si limita a dichiarare che i peccati sono perdonati: è un atto efficace che produce e cambia la realtà;
questo potere è dato ai soli sacerdoti;
i vescovi possono riservare a sé il potere di perdonare certi peccati.

Questi asserti formeranno l’ossatura della catechesi e della predicazione sulla penitenza fino ai giorni nostri.
Nell’ottica tridentina il peccatore è l’individuo che cerca di “trovare il Dio propizio”; di fronte a lui sta la chiesa, vista più come istituzione che celebra un processo che come comunità che accoglie il “figlio prodigo”; la modalità del rapporto è intesa ed espressa prevalentemente con categorie giuridiche.

9) Una conclusione tratta dal cammino della storia

Quanto visto finora permette di pensare legittimamente che, per quanto attiene la celebrazione del perdono cristiano, si possano prevedere forme diverse, che la forma della confessione auricolare privata possa essere affiancata da altri modi dove le circostanze lo permettessero o lo esigessero. Non sarebbe strano pensare che, per delitti particolarmente gravi, il perdono possa essere condizionato ad una penitenza ben pensata e meglio vissuta così da far percepire al peccatore lo spessore del peccato e del perdono che lo riscatta. D’altra parte appare meno assurdo di quanto potesse sembrare anche solo qualche anno fa, valorizzare forme “minori” di penitenza alle quali va attribuito una capacità di ottenere veramente, e non solo “per modo di dire”, il perdono del Signore. Resta ora da entrare un po’ nel cuore del sacramento per capire di cosa si tratta e cosa stanno a rappresentare i singoli elementi della celebrazione.

Proviamo a trattenere alcune idee

L’utopia di Gesù si deve scontrare con al realtà, molto meno capace di vivere a motivo di un amore donato. Vuol dire che la disciplina sulla penitenza sarà una necessità dovuta ancora una volta alla durezza di cuore degli uomini.
Agli inizi: la penitenza pubblica per peccati gravissimi contro Dio e la sopravvivenza della Comunità (delitti, idolatria). Per le mancanze lievi ci sono preghiera, digiuno ed elemosina.
Nel 4° secolo (chiesa divenuta ufficiale) vengono creati gli “ordini dei penitenti” per la gestione della penitenza pubblica.
Alla fine del 6° secolo: compare la confessione frequente e la “penitenza tariffata”: veri manuali applicano ai singoli peccati una specie di multa.
Nel 12° secolo altra svolta: quella della penitenza sostitutiva che distacca completamente il peccato dal cammino di fede della persona.
Col Concilio di Trento (1600) si precisa la dottrina del sacramento: è un sacramento a sé stante, ha precise condizioni, è dato solo ai ministri della Chiesa.
 
10) Sulla scia dell’esperienza di Cristo   (il contesto cristologico)

Dovendo riflettere da cristiani sul contenuto di quell’esperienza chiave che è la riconciliazione con Dio è necessario rifarsi al contesto della fede cristiana: una fede che parla di un’iniziativa divina intesa come “azione di grazia” (cioè “realtà gratuita”). Appare quindi da eliminare dall’annuncio cristiano sul perdono ogni elemento che lo condizioni ad opere umane: una penitenza correttamente eseguita, una confessione integrale, ecc. “Dio ci ha perdonato gratis” (parafrasando un simpaticissimo libro di qualche anno fa), questo è l’annuncio. Ci ha perdonato e lo ha fatto superando i vincoli della Legge e i limiti che la prudenza umana aveva messo sulla strada della riconciliazione nell’esperienza del popolo ebraico.
In Cristo, poi, è stata data all’uomo una nuova legge, la legge che è Cristo stesso, la legge dell’amore “fino alla fine” (cioè “fino al colmo”) che rende quella antica, fondata su precetti e divieti minuziosi, semplicemente ridicola, inadeguata ad esprimere il modo di vivere del credente.  In conseguenza di ciò va superata, nella predicazione e nella celebrazione del sacramento, quel legame insieme facile e intrigante con la Legge, intesa come insieme di norme da rispettare per essere “a posto”, “in grazia di Dio”, garantiti di poter accostarsi alla mensa del Signore. Se il peccato, in senso cristiano, è infedeltà ad un amore, la confessione, nel suo nucleo irrinunciabile, sarà dovuta per l’unico grande peccato che è “il poco amore”, la tiepidezza di cuore verso Dio e verso i fratelli.
I gesti e i fatti che mostrano poi dove arrivi questo “poco amore” sono le spie di una lontananza interiore da Dio, non delitti da misurare e punire in proporzione; chiamano in causa la necessità di riscaldare il cuore, attraverso, che so, una robusta e autentica cura di preghiera, di ascolto della Parola, di vita ecclesiale; non chiedono certamente di gelarlo (il cuore) con pene capaci al massimo di far avvertire Dio come il giudice esigente, anziché come il Padre accogliente che Rembrandt ha ben espresso il quel suo capolavoro che è “il ritorno del figlio prodigo” (la copertina di questo fascicolo).

11) In una Chiesa fatta solo di peccatori riconciliati
    (il contesto ecclesiologico)

Non è certamente una novità, in tutti i testi della preghiera cristiana si esalta la misericordia universale di Dio, non la santità umana. Nella concretezza dell’annuncio però è sempre presente il rischio di dividere l’umanità in buoni e cattivi, degni e indegni, chi è dentro e chi è fuori. In certi periodi per motivi politici, in altri momenti per motivi teologici, in altri per motivi morali.
Da un lato possiamo rilevare il permanere di certe “censure“ (cioè provvedimenti che tolgono a qualcuno determinate possibilità di partecipazione alla vita ecclesiale) anche quando, pur volendolo,  non è più possibile rimediare al peccato commesso (pensiamo ai risposati che hanno figli nel secondo matrimonio); è un’esclusione senza possibilità di appello.
Sull’altro versante i mass media, non senza punte polemiche verso la Chiesa, esprimono spesso il bisogno di “giustificare” certi comportamenti che non si possono evitare (pensiamo all’uso di mezzi anticoncezionali non naturali). Sembra troppo poco vederli considerati “colpe comprensibili”, gesti e modi di vivere “per sé cattivi” ma spesso inevitabili e per i quali quindi si è forse incolpevoli. Questo atteggiamento, quando è fatto proprio, fa fuggire distante da una Chiesa avvertita come troppo esigente, fuori dal mondo.
Sono due difficoltà grosse: nel primo caso è della Chiesa, chiamata ad accettare che la verità diventi evidente attraverso la compresenza in assemblea di persone “evidentemente” non adeguate alle esigenze della vita cristiana; nel secondo caso la difficoltà è delle persone: è la fatica di accettare che si è cristiani perché amati nella debolezza e infedeltà, non perché “giusti”. Cristiano è chi accetta con serenità (fede), di essere amato “gratis” e a causa di questo cerca di vivere come piace a chi lo ama così gratuitamente, ma senza presunzioni.

12) Un sacramento della Chiesa

L’aver rispolverato i ricordi di famiglia, ovvero le differenti modalità attraverso le quali si è vissuta la riconciliazione ci suggerisce un’idea fondamentale: è la Chiesa che chiede e ottiene il perdono in ogni cristiano che confessa i suoi peccati. Così, se è vero che non va dimenticata la dimensione personale del sacramento, occorre affermare la dimensione sacramentale di ogni singolo atto celebrato (un po’ come siamo abituati a fare per ogni singola messa che viene celebrata), dimensione per la quale ogni singola confessione dell’ultimo penitente è la Confessione della Chiesa che chiede perdono a Dio (non meno delle grandi richieste di perdono del Papa durante il Giubileo del 2000) e questo lo concede in modo del tutto gratuito.
All’interno di questo discorso allora occorrerà dire, al di là dell’idea centrale, cosa rappresentino i singoli elementi della celebrazione: il Ministro-Chiesa, il Penitente-Chiesa, il pentimento-penitenza, le parole dell’assoluzione.

L’idea centrale è scontata: “nel sacramento della riconciliazione si realizza, si rende presente e operante oggi l’incontro rivoluzionario fra il Dio che si abbassa e l’uomo che accoglie il dono gratuito”. Ogni confessione-assoluzione rende visibile questa grande luce dell’umanità. Dire questo è affermare che una confessione non è solo il momento “privato” in cui “il bambino cattivo va a chiedere perdono al papà di aver mangiato troppa marmellata”, cioè il momento in cui, quasi facendo una pausa nella vita normale, un singolo uomo va a fare i conti con Dio. Ogni Confessione è il momento in cui l’atteggiamento di tutta la Chiesa diventa concreto, diventa “carne”, esistenza concreta. Per questo non è esagerato dire che ogni singolo penitente è la Chiesa che si mette al suo giusto posto: confidente e umile di fronte a Dio, così come non è esagerato dire (ma a questo siamo abituati) che il Ministro, Prete o Vescovo, è Cristo stesso che perdona. Una conseguenza? Dovrebbe essere normale sentirsi responsabili solidalmente delle colpe della Chiesa (pensiamo al Papa che chiede perdono al mondo per le colpe dei secoli passati).

13) Materia e forma

A far da “materia” del sacramento, cioè da elemento che si trasforma nella presenza di Dio va posto l’atteggiamento del penitente, atteggiamento che è insieme consapevolezza di sé e di Dio, un Dio che accoglie e purifica, innalza e risana attraverso le pieghe normali della vita, attraverso momenti ambigui e contraddittori come contraddittoria è la risposta dell’uomo.

La forma del sacramento è uno degli aspetti più discussi. Da una parte c’è la tendenza a voler semplificare molto la ritualità in questo caso, ponendo solo le persone (penitente e confessore) attorno al peccato, quasi a voler dire, simboleggiare che l’incontro della misericordia è un incontro personale col “Dio-persona” che perdona. Dall’altra parte c’è chi (giustamente) richiama ad un’attenzione più viva alla celebrazione del sacramento, intesa come momento in cui “l’occhio vuole la sua parte”. Se da una parte c’è il vantaggio della semplicità dell’incontro, cosa non trascurabile quando si tratta di ricuperare un volto familiare, cordiale di Dio, dall’altra c’è il pericolo che il sacramento della riconciliazione si riduca ad una bella chiacchierata fra amici, dove più che celebrare il perdono si cercano giustificazioni di varia natura ai comportamenti (cosa doverosa) dimenticando di mostrare e rendere presente il vero gesto del Padre: un perdono accordato a figli liberi di fare anche il male, ma pentiti del male fatto. Dall’altra parte c’è indubbiamente ancora un pericolo di carattere psicologico: avvicinarsi ad un uomo troppo diverso (nelle forme) può incutere un timore che limita la capacità di aprirsi con fiducia, di “confessare” le vere debolezze, quelle più centrali, per le quali ci si potrebbe anche vergognare. Un rito ben celebrato tuttavia è il veicolo scelto dalla Chiesa per dire, rendere presente il Cristo che perdona attraverso la persona del ministro (prete o vescovo). Per questo siamo invitati, normalmente,  a porre al centro della Confessione il confronto con la Parola di Dio, a scegliere luoghi e atteggiamenti che ricordino come non si sta “facendo una chiacchierata”, ma celebrando il perdono da parte di Dio. È ciò che è stato fatto inventando le “celebrazioni penitenziali”: momenti in cui ci si prepara insieme, magari in momenti particolarmente importanti, ad una confessione normalissima, auricolare privata e curata.
Altri “forme” sono possibili?

Quasi senza accorgerci abbiamo parlato solo della Confessione auricolare come modo di esercitare la riconciliazione, dimenticando che la Chiesa, pur senza valorizzarla molto sul piano dei fatti, ha previsto una “terza forma“, una forma in cui il primato indiscutibile è dato alla Parola di Dio, proclamata e spiegata, cui fa seguito una confessione corale dei peccati (fatta cioè tutti assieme attraverso una formula, un salmo, o altro) per la quale è prevista una vera assoluzione generale comunitaria.
È una forma per momenti eccezionali, dice la Chiesa, una forma che, se usata normalmente potrebbe portare i cristiani ad adagiarsi. Non stimolati dalla necessità di “confessarlo”, potrebbero perdere la capacità di scrutare con attenzione dentro di sé alla caccia del peccato.
Sarebbe da chiedersi se questa pur legittima preoccupazione della Chiesa che non rinuncia ad essere maestra non debba lasciare il posto alle posizioni che lo stesso Concilio di Trento, 300 anni fa, ci ha consegnato perché le vivessimo. Quando si affermava che “la confessione piena ed integrale è dovuta per i soli peccati mortali” c’erano due possibilità: convincere le persone che sono molto spesso in peccato mortale (e tale era una volta la prassi nelle nostre parrocchie, dove con una facilità che ha creato danni enormi alla sensibilità dei cristiani, si affermava che chi faceva questo o quella commetteva “peccato mortale”), oppure prendere atto che di peccati veramente mortali (ovvero commessi in “materia grave, con piena avvertenza della mente e deliberato consenso della volontà”) normalmente non ne commettiamo molti nella vita. La cosa però porta con sé, e forse è il caso di dirlo per amore alla verità, la necessità di offrire seriamente al popolo di Dio (e, da parte sua di sfruttarli adeguatamente) momenti alternativi alla confessione per ottenere la remissione dei peccati “veniali”, quelli per i quali avvertiamo troppo ingombrante la “necessità” di una confessione personale. Tali possono essere sia i momenti penitenziali posti all’inizio della S. Messa (il “Kyrie”, Signore pietà!) sia le celebrazioni penitenziali di cui parlavamo. All’interno di queste, senza la proibizione ma anche senza l’obbligo di confessarsi , chi in coscienza non abbia peccati mortali da rimproverarsi, potrebbe considerarsi serenamente perdonato e accolto da Dio con tutto il cuore.

Non è ciò che accade già nell’Unzione dei malati?
Se le parole non sono un gioco, infatti, anche a questo sacramento è annessa la remissione di tutti i peccati. È vero che è un sacramento per momenti eccezionali quali sono la sofferenza e la morte. Tuttavia questo precedente può offrire alla Chiesa uno spunto per un atto di coraggio e di fiducia nello Spirito Santo, stimandolo capace di chiamare, Lui, a una penitenza seria chi ne avesse veramente bisogno senza appesantire troppo la vita normale dei cristiani che vivono certamente in debolezza il loro rapporto con Dio, ma non in modo “mortale” e contribuendo a rasserenare le persone circa l’atteggiamento del Padre.

14) Anche il legame con l’Eucaristia,

...traguardo di ogni riconciliazione cristiana, è un elemento indiscutibile, ma va certamente ripensato. Storicamente è forse il vero filo rosso che lega tutti i periodi: “essere riconciliati con Dio è la condizione per poter partecipare a pieno titolo alla celebrazione eucaristica”. Questo resta vero; occorre però ridare all’Eucaristia tutto il suo valore di richiamo ad una riconciliazione vera della persona e della Chiesa tutta.
Di fronte ad una visione ristretta dell’Eucaristia come momento culmine della vita cristiana, per il quale bisogna essere degni, (altrimenti…) occorre affermare anche che nell’Eucaristia si rende presente anche il vero motivo per cui è bello, desiderabile riconciliarsi: Dio vuole i suoi figli alla mensa con sé, come un papà vuole i suoi figli a casa, attorno alla tavola. Questo “come” è quello che deve gettare una luce positiva sul legame Riconciliazione-Eucaristia: Dio “aspetta”, “desidera”, “soffre” la distanza dei figli, non “aspetta di punire” i figli per le loro distanze. Una partecipazione all’Eucaristia deve riuscire a smuovere il cuore per tenerezza, non per paura, per amore, non per dovere.
Quand’è che un’eucaristia è celebrata e ricevuta “indegnamente”? Chi lo può dire? Chi la riceve “ne è degno” di fronte a Dio? A chi scrive pare che le risposte a queste domande siano talmente scontate che non occorra aggiungere altro se non la speranza di veder vissuta con stupore la possibilità, data al cristiano, di sentirsi a casa sua quand’è vicino a Dio.

Proviamo a trattenere alcune idee
Il perdono di Dio è qualcosa che nasce dal cuore stesso di Dio, fa parte della sua intima natura, e non è condizionato da nulla, e va chiesto, in estrema sostanza, per l’unico peccato che è la mancanza d’amore per Dio.
Il sacramento del perdono va vissuto nella Chiesa e da parte della Chiesa: una famiglia fatta di peccatori riconciliati. Eliminare la tensione fra queste due parole: peccatori e riconciliati è la tentazione di tutti (laici e Chiesa). Invece la vita cristiana si snoda proprio a partire dal permanere di questa tensione nella quale si deve vivere.
In profondità è la Chiesa che chiede perdono ogni volta che un suo figlio lo fa personalmente.
Le forme del sacramento potrebbero essere anche altre, e vanno valorizzati tutti i momenti penitenziali.
Essere degni dell’Eucaristia, è una parola molto grossa, e non basta un rito celebrato correttamente a farci degni di un dono così grande. L’Eucaristia è sì il traguardo di ogni riconciliazione, ma anche il motivo per cui vale la pena riconciliarci con Dio: Padre che vuole i suoi figli atorno alla mensa.


 
15) Un cappello “pastorale” sulla confessione frequente

Qualcuno che abbia avuto la pazienza di arrivare fin qui potrebbe essersi fatto un’idea: che chi firma queste righe non stimi quella che per secoli è stata raccomandata dalla Chiesa, ”madre e maestra”: la confessione frequente. Nell’affrontare questo argomento, diremo che è bene aver consapevolezza di un fatto: la confessione frequente è sempre stata raccomandata come strumento di “cura” spirituale delle coscienze, soprattutto in momenti storici in cui veniva considerata una presenza veramente efficace di Cristo solo quella che si realizzava nei sacramenti. Più recentemente, e precisamente a partire dal Concilio Vaticano secondo, c’è stata una riscoperta del valore della Parola di Dio come sacramento della presenza del Signore in mezzo a noi.
Questa riscoperta, credo, potrebbe aprire le porte ad una sensibilità che non teme di separare, per esempio, la “direzione” o “colloquio” spirituale dal sacramento della confessione. Il “colloquio spirituale” è il momento in cui, sotto la luce della Parola di Dio un cristiano cerca di capire cosa Dio, attraverso lo Spirito Santo, voglia dire a lui qui, ora. Molto spesso in questo dialogo convergono più realtà buone, cammini percorsi, traguardi raggiunti. Convergono, certo, anche fatiche, sofferenze, lentezze della nostra personale umanità, anche peccati.
Credo sia possibile dire che, figli come siamo del nostro tempo, non abbiamo più, mediamente, una coscienza  che avverte come peccati veri tutte le mancanze che commette. Aiutati poi dalle acquisizioni della psicologia, abbiamo capito come certi limiti che ci portiamo dentro non sono dipendenti dalla nostra responsabilità ma dalla nostra storia, dall’ambiente in cui viviamo ecc. “Non è colpa nostra” molto spesso, e se lo è non è colpa grave. Per questo, di fronte a certi comportamenti disordinati, si tratta più che altro di andare in cerca dei meccanismi che li favoriscono piuttosto che scomodare la misericordia di Dio.
Detto ciò, e per entrare nell’argomento della confessione frequente, viene da suggerirla solo a chi abbia la capacità di percepire come tali i peccati veri, dato il suo valore di riconciliazione con Dio; evitandola decisamente a parte di chi nel cuore ha la tendenza ad essere scrupoloso. In ogni caso, per tutta quella realtà che non ha a che fare col peccato, va incoraggiato il “colloquio spirituale” attraverso il quale la Chiesa e i suoi “ministri” si dedicano, magari un po’ più che in altri tempi, al dialogo, all’ascolto. È da riscoprire insomma quella che nelle Chiese orientali è una figura chiave: quella dello “Staretz”, il maestro spirituale, colui che, avendo camminato sulla via di Dio ne può indicare i passi.
Capiamo facilmente che i “ministri”, in questo senso, potranno essere anche altri oltre al prete: pensiamo a monaci o frati di grande fede e spiritualità, a suore o ad altre figure di consacrati (o meno) che, in un dialogo di ordine spirituale, possono portare tutto il bagaglio di una sensibilità diversa da quella di un prete. Potrebbe essere, ad esempio, un luogo dove si realizza un po’ la tanto invocata valorizzazione della donna nella Chiesa, un luogo dove questa, per la sua sensibilità femminile, può arrivare dove un prete, non fosse altro che per il fatto di essere un maschio, non sa arrivare.
Se nascesse nel cuore di chi legge queste righe l’obiezione: “ma nel sacramento c’è la grazia di Dio” rispondo che la grazia di Dio c’è anche nell’ascolto della Parola, nell’essere riuniti: maestro e discepolo “nel nome del Signore”. Piuttosto, forse, c’è da riscoprire la capacità di mettersi in cammino senza le scorciatoie di chi affida alla “grazia di Dio” l’impegno di crescere spiritualmente attraverso la fatica e la dedizione costante ad una disciplina spirituale che ricorda quella degli sportivi nel loro allenamento in vista della competizione.
Potrebbe esserci chi solleva l’obiezione contraria per la quale uno dei veri problemi del nostro tempo è che, mediamente, non consideriamo “peccato” neanche ciò che lo è veramente, abbiamo perso il senso del peccato. Per chi vive questa difficoltà di percepire la concretezza del peccato, si dice, un obbligo di confessarsi fa da stimolo educativo. Non lo escludo; viene da chiedersi, però, se occorra strumentalizzare il sacramento della riconciliazione, ovvero il segno di una riconciliazione avvenuta, per realizzare quella formazione della coscienza che, invece, pare che sarebbe meglio raggiunta se posta come traguardo di un cammino di crescita personale.
In sostanza la Confessione frequente appare un po’ più problematica di quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo. Infatti figure di celebri santi, anche nostrani, hanno fatto la storia della Chiesa e della spiritualità attorno al confessionale. Il Curato D’Ars, S. Leopoldo Mandic, ecc. sono figure gigantesche nella storia della Chiesa. È bene dire però che lo sono state in precisi momenti storici nei quali la sensibilità delle persone era diversa da oggi, le conoscenze di tipo psicologico e il livello culturale erano diversi da oggi, i pericoli per le coscienze erano diversi da oggi. Oggi forse si deve cercare una nuova figura di Prete santo: non più quello che stava lunghe ore al Confessionale a confessare fiumi di gente, ma colui che in quelle stesse ore sa stare a sentire con calma i problemi concreti, sa distinguere fra colpa, peccato e difficoltà-fatica, aiutando i suoi penitenti a conoscere sé stessi, a capire dove c’è la vera responsabilità per un comportamento e dove c’è qualche condizionamento che toglie la libertà di comportarsi bene. Il nuovo “prete santo” sarà un fine ascoltatore, capace di farsi anche amico dei suoi penitenti per trasmettere quel calore che, solo, può far percepire all’uomo e alla donna del 2.000, l’amore del Padre che in Cristo è divenuto “carne”, ovvero umanità, sensibilità, amicizia.
E “sotto Pasqua”, ovvero nei momenti di ressa al Confessionale? Certo, non bisogna esagerare nelle “perdite di tempo”; non dimentichiamo però che quello è ancora l’unico momento in cui molti cristiani abitualmente lontani dalla “pratica religiosa” trovano lo stimolo di aprirsi ad un confronto educativo-spirituale. Disattendere con una confessione troppo sbrigativa le attese di queste persone equivale a rimandare (forse) per anni un avvicinamento cordiale alla Chiesa e alla sua vita concreta. Piuttosto, direi che quelli sono i giorni in cui il prete dovrebbe essere lì solo per loro, per i più lontani, superando la paura di non essere in grazia di Dio, in occasione delle grandi feste, da parte dei più affezionati-vicini.


Una preghiera per concludere

Confesso…
Confesso, davanti al mondo e alla Chiesa
che Dio mi ha amato prima di creare il mondo,
mi ha creato libero, libero di volere il bene e il male.

So e confesso che siamo il tesoro di Dio,
la sua perla più preziosa,
per questo ha mandato il suo figlio Gesù,
non a giudicarci ma a salvarci e donarci la vita del cielo.

Confesso che ogni giorno pecco contro il Signore
avendo poca fiducia in Lui e nel suo infinito amore.
Per questo meriterei di subire la sua ira,
quell’ira che però, dopo il diluvio,
Dio ha promesso di non mostrare più.

Prometto che non avrò mai la presunzione
di giudicare qualcuno sentendomi superiore a lui,
perché i peccati degli altri non sono peggiori dei miei.

Voglio coltivare il desiderio di essere sempre più santo,
cioè innamorato di Dio, e del suo amore
per giungere con Lui e con i miei fratelli alla vita eterna.
Amen

Ultima modifica il Sabato, 27 Agosto 2016 14:32
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