Mercoledì, 14 Gennaio 2015 22:50

La Civiltà rupestre e i giacimenti culturali

Scritto da


 Presentazione del volume 
Le Grotte di Sant’Antuono di Antonio Giganti - Oppido Lucano, Teatro Obadiah, 15 luglio 2015.

        

L’area che va dalle estreme propaggini nord delle Murge al Mare Ionio è interessata al fenomeno della storia umana che noi chiamiamo civiltà rupestre, sviluppatasi lungo le ripe a volte scoscese delle gravine, di cui sono ricchi i territori carsici. La natura del terreno ha condizionato il destino insediativo ed economico delle regioni che presentano caratteristiche tali. La vita in grotte, però’ o luoghi di culto in cavità naturali non è una caratteristica solo di tale zona, ma ha un raggio di diffusione lungo tutto l’Appennino. Se oggi si è perduto la memoria di tanti villaggi generatisi in cavità naturali, a ridosso delle montagne, lungo vallate percorse da rigagnoli d’acqua perenne,  non la si è perduta di tanti luoghi di culto e di chiese rupestri che hanno sempre rappresentato un legame con la vita dei secoli passati. Molti luoghi di culto dedicati a san Michele Arcangelo, e non solo a San Michele,  sono ricavati in cavità naturali. Il culto di San Michele accompagnava le conquiste dei longobardi nell’Italia meridionale, per cui grotte dedicate all’Arcangelo si trovano in ogni regione; la più famosa è senz’altro quella di Monte Sant’Angelo sul Gargano, santuario fondato dai Longobardi, diventato importante stazione di sosta sulla strada che percorrevano crociati e pellegrini nel cammino per la terra santa.   Nei secoli intorno al Mille, inoltre, molti eremiti si rifugiavano in spechi naturali, intorno ai quali il più delle volte nascevano i monasteri, che ancora oggi godono di sacralità. Un sacro speco esiste a Montecassino e in tante altre famose abbazie. Gli eremiti erano spesso persone che cercavano solitudine e tranquillità per estraniarsi dal resto del mondo e sistemarsi in grotte naturali, nelle quali vivevano appartati e di quello che la natura offriva. Visse in tali condizioni, per tre anni, Benedetto da Norcia, a Subiaco: la grotta nella quale aveva preso dimora non tardò a diventare un luogo sacro, rimasto tale fino ad oggi. 

  Fin dal paleolitico gli uomini hanno posto la loro dimora nelle grotte carsiche, la presenza di pitture parietali dimostra che queste, oltre ad avere funzione abitativa, svolgevano anche funzioni  rituali e di culto. Sono queste che hanno conservato  reperti che oggi fanno ricostruire agli studiosi la storia civile e religiosa dell’uomo vissuto in grotte migliaia di anni fa. Esse restituiscono ex voti non solo della vita di uomini che si perde nella preistoria, ma anche dell’età tordo antica. I reperti in esse rinvenuti parlano anche di frequentazioni medievali, quasi che dopo la grande civiltà greco-romana che ha lasciato emergenze architettoniche dalle quali prende ispirazione ancora oggi l’architettura, l’uomo avesse fatto un passo indietro nel tempo e fosse ritornato a vivere come natura gli offriva.  L’insediamento umano in grotte naturali, però, è un fenomeno antico e non solo di un sol luogo ed in tempi di decadenza economica. L’abitare in grotte era per l’uomo quasi un regressum ad uterum, un ritorno alla sicurezza del grembo materno: solo l’abitare sotto terra poteva dare sicurezza non solo da pericoli provenienti dagli uomini, ma anche dalla natura. Accenniamo solamente alla splendida città di Petra in Giordania, interamente scavata nella roccia con facciate degli edifici scolpite nella stessa roccia, oggi patrimonio dell’umanità, una volta snodo di traffici con l’estremo Oriente, in modo particolare per il commercio della seta tra Roma imperiale e il celeste impero della Cina o alla stupenda pagina di Senofonte, in cui lo scrittore greco descrive una città ipogea posta nel paese dei Carduchi, attraversato dai Greci nel loro viaggio di ritorno dalla Mesopotamia, dopo la  famosa spedizione dei diecimila.

Leggiamo Senofonte (Anabasi  IV, 5, 25-29).

 Le abitazioni erano sotterranee (katàgheioi), larghe sul fondo ma in alto si restringevano fino ad un’imboccatura simile a quelle dei pozzi. Le bastie scendevano nei locali sotterranei attraverso una galleria, le persone per mezzo di una scala. Queste abitazioni erano piene di capre, pecore, buoi, uccelli, ogni specie con la sua prole. Tutte queste bestie erano allevate all’interno con il fieno.  C’erano anche grano, orzo, legumi e vino di orzo conservato in orci in cui erano depositati  anche dei chicchi di orzo galleggianti; e vi erano  immerse anche delle canne, prive di nodi e di varia grandezza. Quando qualcuno aveva sete, doveva prendere in bocca una canna e succhiare. La bevanda era troppo forte se non ci si versava dell’acqua, ma una volta gustata riusciva gradevolissima.

La storia dei popoli italici non ci narra insediamenti demici in grotte. Gli italici, ed in seguito i Romani, costruivano le loro città i primi sui monti (i famosi loca munita di Tito Livio, la necropoli del Montrone ne è un esempio), i secondi in pianura riportando nella planimetria delle loro città la pianta dei castra militari. I Greci e i Romani non costruivano  città scavandole nel tufo o nella roccia, ma grotte e spelonche  naturali hanno sempre accompagnato il percorso dell’uomo nella sua storia, e quindi anche dei greci e dei romani. Gli antri bui e sotterranei erano il luoghi in cui indovini e sacerdoti greco-romani celebravano i loro riti e pronunciavano le loro profezie. Famoso era in Italia l’antro della Sibilla Cumana, Omero pone la dimora della maga Circe in una spelonca. 

Il vivere in grotte è stato ripreso nel Medioevo tardo, almeno dalle nostre parti, nella zona carsica lungo il confine appulo-lucano. 

Il carsismo, fenomeno naturale che produce cavità a volte spettacolari, ha permesso nel tempo l’uso di tali grotte, prodottesi nella roccia, in esse l’uomo trovava maggiori garanzie di stabilità e di sicurezza. Le grotte carsiche, che si affacciano in modo particolare  lungo il corso delle gravine, presentano tracce di plurimillenaria frequentazione umana, come quelle che si aprono lungo la fossa premurgiana, che va da Minervino Murge fino a Taranto: gli insediamenti più importanti sono senza dubbio quelli di Gravina di Puglia,  quello diventato ormai patrimonio dell’Umanità di Matera e quello  di Massafra.

 Alla base di questo vi sono state motivazioni soprattutto economiche, che, ad un certo tempo della storia umana, hanno spinto l’uomo a vivere in grotte lungo questa zona carsica e i fianchi delle gravine, torrenti poveri di acque che scendono dalla Murge verso il Bradano. Nel IX –X –XI sec. della nostra era, per necessità economiche, di difesa dalle continue incursioni devastanti da parte dei saraceni si trovò riparo in cavità naturali non in vista e protette dalle asperità dei luoghi. La gente si rifugiò lungo i margini scoscesi delle gravine, perché  scavare il tufo era più facile  e meno costoso che costruire una casa in muratura, richiedeva regole tecniche meno sofisticate: bastava che la grotta scavata non crollasse, fosse il meno umida possibile ed in prossimità di sorgenti d’acqua. Abitare in grotte era un mimetizzarsi nella natura, consentiva una maggiore possibilità di difesa contro le ricorrenti incursioni saracene che in quei secoli infestavano queste contrade. Per cui dove la natura lo permetteva, si ricorreva a questa forma di insediamento umano.  Case scavate, non costruite, che nascondevano la loro esistenza, spesso presentavano una facciata in muratura che riparava dal freddo e dal caldo. Le grotte, come era naturale, venivano scavate in luoghi impervi, ma ricchi di sorgenti, le cui acque, attraverso canalizzazioni, soddisfacevano alle necessità di uomini e di animali. La grotta, a meno che non era il rifugio di un eremita, non era solitaria, ma parte di un insieme costituente quasi un villaggio. Un insieme di grotte poteva costituire anche una comunità di monaci, che trovavano nel luogo di culto, che normalmente accompagnava queste aggregazioni di grotte, il centro focale della vita comunitaria.

 Furono create in questo modo case grotte articolate, multifunzionali, ambienti per animali, strutture produttive. In concomitanza con gli insediamenti abitativi e le istituzioni monastiche nascevano luoghi di culto impiegati ad uso liturgico e devozionale, non solo pubblici o di comunità monastiche, ma anche privati, gestiti dalle famiglie più facoltose. La esistenza di questi luoghi di culto era una delle caratteristiche del paesaggio rurale; ciò era dovuto anche alla debolezza economica ed organizzativa della chiesa ufficiale in ambito rurale, che era venuta meno alla sua funzione di raccogliere intorno ad un altare il popolo orante. Fra il secolo VIII ed il XII i longobardi e i bizantini  favorirono la fondazione e la costruzione di chiese, cappelle e monasteri privati nelle campagne, che offrivano la possibilità di sfruttare la natura del terreno che si prestava a tale tipo di insediamento. Gli insediamenti monastici ipogei sono una conseguenza importante del fenomeno del popolamento rupestre ed ha avuto come esito considerevoli apporti artistici, spirituali e religiosi nel contesto della civiltà rupestre. Tali apporti sono stati gli elementi più duraturi e sono oggi i più conosciuti, i più studiati; sono i luoghi di culto, le cosiddette chiese rupestri, che oggi costituiscono un’attrattiva turistica a volte vitale per la zona. Gli studi sui cicli di affreschi, che quasi tutte  le chiese rupestri di tali insediamenti ci hanno tramandato, aprono una spaccato conoscitivo non solo storico, ma anche sulle tradizioni religiose e sugli apporti religioso-culturali delle immigrazioni di gente venuta da lontano. 

Queste emergenze erano costituite da un’architettura ipogea che spesso imitava quella sub divo, sotto il cielo: aveva questa significativi interventi con il taglio della roccia o del tufo, come è successo nelle numerose chiese rupestri che costellano il territorio di Matera, come è successo nella nostra chiesa rupestre di Sant’Antuono. I luoghi di culto scavati nel tufo ed affrescati  sono le emergenze di questo sistema abitativo giunte fino ai nostri giorni e, anche se hanno subito i danni del tempo e dell’abbandono, tramandano ancora una lunga tradizione culturale  con una narratività pittorica elementare, perché dovuta ad artisti locali che vivevano lontano dalle grandi correnti artistiche. Uno storico dell’arte (Piero Adorno) ha detto che i cicli narrativi ritratti nelle cripte rupestri appaiono come miniature ingrandite o come fatti illustrati in piazza da un cantastorie. Servivano infatti come bibbie dei poveri per illustrare a chi non sapeva leggere né scrivere, per leggere visivamente le storie narrate sulle pareti. Le figurazioni sulle pareti avevano lo scopo di penetrare nella coscienza dei fedeli ancor più delle parole dei sacerdoti per quella capacità di polarizzare l’attenzione e di persuadere che è propria dell’immagine. Non ci addentriamo nella discussione di quanto di artistico o di bizantino ci sia negli affreschi parietali che adornano le centinaia di chiese rupestri che popolano gran parte dell’Italia meridionale, e quindi anche la nostra chiesa rupestre, ma la presenza dell’arte bizantina non manca. I maestri locali, però, interpretano liberamente con sensibilità occidentale, i caratteri orientali, per cui possiamo parlare di originalità non solo pittorica, ma spesso anche nella fonte di ispirazione, come appunto accade nel ciclo pittorico di Sant’Antuono. 

L’interno dei luoghi di culto, scavati nel tufo o nella roccia, di maggiore dignità architettonica e pittorica non si presenta tanto diverso  nelle linee portanti da quello delle chiese costruite in muratura. Le pareti affrescate, che nascevano seguendo anche il diffondersi del monachesimo bizantino, oltre ad essere la cosiddetta bibbia dei poveri, combattevano anche  l’iconoclastia orientale che mirava alla  distruzione delle immagini sacre.   Le cripte rupestri, almeno nella nostra zona, giungono fin nel Vulture: famose sono le cripte di Melfi di Santa Margherita e di Santa Lucia ed inoltre la grotta di San Michele di Monticchio, ma troviamo grotte dedicate a San Michele a Minervino e quella ben più famosa del Gargano; esse però sono sparse in tutta la regione..

 La chiesa rupestre di Oppido con il suo insediamento monastico   si trova fra il Vulture e la zona dal più alto popolamento rupestre Matera-Taranto

 La chiesa rupestre di Oppido entrò nella trattatistica attraverso il lavoro di Alba Medea del 1961 Resti di un ciclo evangelico: Affreschi della grotta di S. Antuono di Oppido Lucano, in «Archivio storico della Calabria e della Lucania» ed il lavoro di Antonio Giganti, in prima edizione nel 2000, in seconda edizione con il pregevole volume sia per la veste tipografica che per il contenuto che spazia dalla storia alla critica d’arte, Le grotte di Sant’Antuono ed. La Matrice Bari 2014. Lo studio di Giganti è corredato da una ricca documentazione che sfata le leggende metropolitane nate sulla grotta, per secoli lasciata in balia degli agenti atmosferici e dell’incuria dell’uomo. Meritevole lo studio di Antonio Giganti per il suo rigore scientifico che apre nuovi orizzonti sulle fonti ispiratrici del ciclo pittorico e sulla figura di un personaggio molto discusso dell’iconografia medievale, sulla figura di Giuda; ma anche meritevole l’Amministrazione comunale, nella persona del sindaco Antonietta Fidanza, che ha voluto e patrocinato lo studio del Giganti.  Lo scavo e la lettura attenta dei documenti costituiscono anche in questa monografia la caratteristica di fondo che ha sempre caratterizzato l’attività di Giganti. Egli parte da lontano nel tempo e nello spazio e prima di argomentare sul valore artistico del ciclo degli affreschi, indaga sul perché dell’esistenza di una costruzione del genere posizionata in un punto obbligato per l’accesso all’abitato di Oppido. Dopo lo studio di Alba Medea, che analizza il ciclo pittorico della cripta dal lato artistico, senza dare alcuna indicazione storica, salvo a dire che «la decorazione pittorica della grotta adiacente alla chiesa ci apparirà come un ultimo riflesso delle correnti d’arte legate a un ambiente bizantino in una tradizione popolare», questo di Giganti viene a colmare una lacuna e a sfaldare errate convinzioni, incallite nel tempo. La mancanza di notizie relative alla storia della chiesetta ha prodotto nel tempo ipotesi fantasiose e non sopportate da documenti che potessero illuminare la mente di chi tentava uno studio sul ciclo di affreschi. E se la critica  ha bisogno di un’opera d’arte per portare avanti un discorso sugli stilemi di cui si è servito l’artista, sia egli inserito in correnti o scuole pittoriche o uno che segni un nuovo percorso,  l’affresco o la tela è lì davanti agli occhi del critico o dello studioso; la critica storica ha bisogno invece di fonti e di documenti per spiegarsi il perché, il come ed il quando di quell’opera d’arte. Se per la cripta di Oppido si è sempre potuto fare un discorso sugli affreschi, sulla tecnica usata dallo sconosciuto artista e sul tempo della loro realizzazione, non si è giunti mai a una certezza storica del perché degli affreschi in questo determinato luogo. Nel nostro caso mancavano i documenti, o meglio non si era arrivato ad essi e non ci si rendeva conto da alcuni, perché, ad es., l’odonimo che conduce alla cripta è Via Ospedale, quando ad Oppido non è mai esistito un ospedale, ed inoltre perché sant’Antuono? I capitoli del pregevole volume del Giganti  L’ordine ospedaliero di sant’Antuono abate di Vienne, I canonici regolari di Sant’Antuono a Oppido Lucano nel Regno di Napoli sgretolano la credenza delle tradizioni bizantine o basiliane. Documenti alla mano, Giganti dimostra che la costruzione della chiesetta, della cripta e la messa in opera degli affreschi nella grotta, con annesso ospedale o lazzaretto sono da ascrivere al movimento religioso degli antoniani che vennero in Italia al seguito degli Angioini. I quali vennero ad Oppido perché absurdum videbatur in civitate opulenta et numerosa non adesse hospitale E gli Antoniani vennero a Oppido e si insediarono in un primo tempo sul Belvedere in sostituzione dei Cistercensi, poi costruirono la Chiesa di sant’Antoine  (Antuone  nella pronuncia popolare) in un luogo che controllava la via di accesso al paese di coloro che venivano dall’Oriente, per curare la peste nera: il fuoco di Sant’Antonio. Lo studio del Giganti, dunque, attraverso un’indagine di prima mano su documenti originali, molti dei quali venuti dalla Francia, apre uno spaccato sulla storia medievale, diversamente sconosciuta, di una comunità meridionale. La sua è un’indagine precisa, filologicamente puntuale, le fonti sono sempre citate, valutate criticamente, e quando è stato necessario riportate in nota.

La seconda parte del volume, costituita da un solo capitolo, propone una lettura degli affreschi, nati in un ambiente monastico antoniano, come chiaramente dimostra il segno tau, che spesso si vede raffigurato. La lettura del volume del Giganti fa spaziare il lettore da un microcosmo al quale può essere ascritta la chiesetta di Sant’Antuono di Oppido, al macrocosmo della storia del Regno, in quanto gli avvenimenti non sono visti in una prospettiva localistica, ma come parte di un tutto dal respiro molto ampio. L’insediamento degli Antoniani a Oppido non fu un unicum nella zona: i monaci si irradiarono a macchia di leopardo e furono guida spirituale e sociale, curando la peste nera, per le popolazioni fino all’arrivo del francescani. Il volume del Giganti viene così ad essere un insieme di storia civile, sociale e religiosa: questi tre elementi interagendo fra di loro, tracciano il faticoso percorso delle piccole come delle grandi comunità.

Molto spesso i cicli pittorici, nonostante le devastazioni che l’abbandono e l’incuria possono causare, si sono rivelati i più duraturi nel tempo. È il caso del ciclo pittorico di Oppido, che nonostante tutto, conserva affreschi che sono ancora là a testimoniare che nel XIV secolo una comunità di religiosi svolgeva in quel luogo la sua missione di civiltà. Se noi dovessimo fare la storia della chiesa di sant’Antuono, vedremmo che non ha goduto nel tempo del rispetto che meritava non solo come chiesa, ma anche come scrigno di un ciclo pittorico che costituisce un patrimonio culturale anche se appartiene a quella che viene definita arte minore, ma l’arte non è fatta solamente dai grandi capolavori,  è fatta anche da un tessuto connettivo continuo, senza conoscere il quale sarebbe difficile spiegarsi il sorgere di tanti capolavori che adornano le nostre chiese da Giotto in poi. La chiesa di Oppido, fino a qualche decennio fa, era adibita per vari usi non certo confacenti alla dignità del luogo. È stata un deposito, ma anche un ricovero per animali e chi sa per  quante altre necessità ha dovuto essere usata. Intorno ad essa sono nate leggende metropolitane prima che studi storico-artistici facessero luce sulla sua storia e sul valore artistico e culturale degli affreschi in essa contenuti. 

Ma le leggende sono state dure a morire, anzi l’immaginario collettivo fantastica ancora sulla sua natura. Essa si trova sulla strada che nei secoli andati collegava l’abitato con la campagna ed i paesi dell’Altobradano. Era molto frequentata e quel rudere prospiciente sul ciglio della strada sollecitava la fantasia. Monaci, fantasmi, briganti si affacciavano alla mente ogni volta che si passava da quei paraggi.

 La chiesa di Sant’Antuono di Oppido è contornata da altre diciannove grotte scavate nel declivio che va dalla statale 169 fino al torrente che scorre nella vallata: difatti il volume di Giganti si intitola Le Grotte di Sant’Antuono.  Alcune si inoltrano nella roccia tufacea di appena qualche metro, altre sono più profonde.  Adiacente  alla chiesetta ve ne è una che ha un avancorpo in muratura, è abbastanza profonda e ampia, adatta ad essere abitata. La più grande è quella che va sotto il nome di Grottone  Cassano. Riportiamo la descrizione che ha fatto Gaetano Tiri nel suo volumetto Pietre e alberi parlano dell’antica terra di Oppido Lucano, p. 23. Il Grottone Cassano, profondo m. 26, largo mt. 4,70  con una volta a tutto sesto che all’imposta misura mt 2,35 ed un raggio di mt. 2,35 raggiungendo al centro un’altezza di m. 4,70.  Ha attualmente la parte anteriore in muratura con una bella volta a botte alla romana, per una lunghezza di mt. 9,00, per altri 17 mt. è scavata nella roccia tufacea e/o arenaria. Ha una porta d’ingresso larga cm. 160, alta 180 con sopra una finestra di cm. 140x120. Originariamente era tutto scavato nella roccia, col passare del tempo, la parte anteriore è caduta ed in epoca successiva, nel 1700 o 1800, è stata rifatta in muratura con pietra arenaria ricavata sul posto.  È l’unica ad essere così profonda e così alta, mentre le altre grotte, visitate, sono più piccole. Dentro si trovano delle piccole nicchie scavate nella roccia poste a distanza sempre uguale come se fra due nicchie vi fosse il posto per un giaciglio, la mancanza di un focolare, la mancanza di residui organici di animali, la mancanza di spazio davanti l’ingresso, la vicinanza alla Cripta, l’esposizione dell’unica porta d’accesso con l’unica finestra a sud-ovest  fa pensare dell’utilizzo del grottone come una casa spedale per i pellegrini che dalla Puglia o da Matera andavano a Roma in occasione del Giubileo. Oppure ancora prima al tempo dei Templari ospitava i  pellegrini che andavano al Santo Sepolcro in Terra Santa. Fin qui Tiri, ma le supposizioni che fa sull’utilizzo della grotta non convincono del tutto.   Una cosa è certa: tutte queste  grotte erano abitate.     

 La zona è dotata di varie sorgenti, quali quella che oggi alimenta la fontana di Pozzella e quella della grotta di Moschiro, che nell’antichità alimentava la villa rustica romana di masseria Ciccotti. Queste grotte fino ad alcuni decenni fa erano ricoveri di animali domestici allevati nella zona.  

Si è sempre dato maggiore interesse alle grotte che costituivano luoghi di culto, con maggiori pregi architettonici e pittorici, trascurando il resto, cioè l’habitat che circondava il luogo di culto, scavato per gli insediamenti abitativi, perché questi sono stati col tempo abbandonati, mentre i luoghi di culto hanno goduto della cura anche se non continua, per la sacralità che custodivano. Il luogo di culto spesso era una conseguenza di un insediamento abitativo costituito anche da centinaia di persone. Il villaggio rupestre, era concepito in un’ottica cittadina e strutturato come un borgo medievale. E chi ci dice che le numerose grotte che contornano il luogo di culto di Sant’Antuono non fosse un insediamento rupestre? Il villaggio rupestre della Madonna della Scala di Massafra è scandito da unità abitative a schiera con giardino-ortale anteriore, dove insistono pozzi e canalizzazioni disposte lungo le curve di livello con andamento chiuso per quando possibile e con comunicazioni per linee concentriche non dissimile dal modo di organizzarsi di un qualsiasi borgo medioevale disposto sul crinale in pendio di una collina (C.D.Fonseca). Il villaggio rupestre, però, come gli insediamenti di Matera, i rioni dei Sassi per intenderci, poteva nascere anche come supporto alla città che si estendeva al di sopra della gravina.   La grotta costituiva anche il ricovero temporaneo per i pastori lungo le vie della transumanza, praticata lungo la dorsale appenninica che va dall’Abruzzo, dalla Lucania alla Puglia. Le vie della transumanza hanno lasciato in eredità il tracciato dei tratturi, molti dei quali oggi son diventati strade statali o provinciali. Nella realtà abitativa rupestre si inserì in concomitanza della cosiddetta colonizzazione bizantina il monachesimo italo greco che diede vita a numerose istituzioni monastiche ed eremitiche lungo la fascia bradanica che va da Taranto fino alla nostra zona.  Ci fermiamo qui, la nostra ha voluto semplicemente essere la presentazione di un libro, non uno studio sulla civiltà rupestre. 

                                                                                             Francesco Saverio Lioi

Ultima modifica il Martedì, 29 Settembre 2015 14:44
Altro in questa categoria: « L'icona della Madre di Dio L'Annunziata »
Devi effettuare il login per inviare commenti