Mercoledì, 14 Gennaio 2015 22:23

Tabula Bantina o Oppidensis?

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Riproponiamo la relazione introduttiva tenuta dal prof. Francesco Saverio Lioi il 3 gennaio 2014 presso il teatro Obadiah in Oppido Lucano.

Riproponiamo la relazione introduttiva tenuta dal prof. Francesco Saverio Lioi il 3 gennaio 2014 presso il teatro Obadiah in Oppido Lucano

     Oppido Lucano, dai quasi 750 m. s.l.m. del Montrone, domina l’alta valle del Bradano ed è stato sempre, tabula lato Anel corso dei secoli, un luogo di difesa e di incontro di genti, che, percorrendo il greto del fiume, si inoltravano verso l’interno della regione. I declivi del Montrone, dove doveva vivere nel IV sec. a. C., una popolosa comunità, hanno conservato nel tempo una vasta necropoli, scavata alla fine degli anni ’60 del secolo scorso.


Da questa  gli archeologi hanno portato alla luce reperti  di vario valore, che hanno assegnato al centro moderno un posto di notevole rilievo negli studi antichistici. La necropoli è stata esplorata con scavi sistematici diretti da Lisa Caronna Lissi;  molto spesso però è stata la sorte che ha offerto all’archeologia reperti che oggi arricchiscono i musei archeologici della regione; alla storia prima e alla scienza linguistica poi monumenti epigrafici unici nel loro genere. È il caso della lastra  bronzea opistografa che va sotto il nome di Tavola bantina, dei cippi funerari dissotterrati dall’aratro o le etichette del medico.  Sono documenti epigrafici in lingua osca, in lingua latina  ed in lingua greca venuti alla luce dal suolo oppidano, sui quali si sono misurati linguisti e archeologi di fama e che ancora non hanno detto una parola definitiva. Queste epigrafi, soprattutto la tavola bronzea, hanno fatto entrare il toponimo Oppido Lucano di diritto nella storia  linguistica del latino e nell’archeologia. Quando si parla di testi scritti in osco non si può non pensare immediatamente alla grande iscrizione in osco, la Tavola Bantina,  trovata a Oppido Lucano, contenente uno straordinario testo giuridico di un municipio romano del quale faceva parte il territorio di Opinum, oggi Oppido.  Il documento in lingua osca, del quale si parla in questo scritto, è fin troppo noto, almeno nella sua esistenza, quelli in lingua greca sono meno noti, ma non meno importanti. Questi sono costituiti da due plachette in ceramica nera, traforate al centro, databili al IV sec. a. C., venute alla luce durante una delle  campagne  di scavo condotte da Lisa Caronna Lissi. Sono due etichette di un chirurgo antico, costituenti una assoluta novità nel campo archeologico. Esse servivano, dice Margherita Guarducci ( Etichette di un chirurgo antico in Atti dell’Accademia dei Lincei, Roma 1980) per distinguere varie categorie di strumenti nell’armamentario di un chirurgo antico che operava nell’abitato di quella che oggi è la necropoli osco-lucana di Oppido Lucano. Le parole, graffite in greco sulla piccola mattonella di ceramica, indicano pertanto strumenti chirurgici, il cui uso nella chirurgia antica, trova conferma nei trattati di medicina di Ippocrate, usati dai medici antichi. L’esistenza di un medico chirurgo che usava dei cartigli per i suoi ferri chirurgici lascia presupporre una discreta assistenza medica in tempi così remoti in un pagus secondario di una federazione osca. Le due etichette sono importanti per la storia della medicina, ma anche per  l’uso dell’alfabeto  greco, che  si spiega forse con il fatto che i lucani nel V – IV sec. a. C. nella loro scrittura usavano quest’alfabeto mutuato dai greci delle colonie della Magna Grecia, sono passati poi all’uso dell’alfabeto latino mutuato dagli etruschi, ma più probabile può essere l’ipotesi che il medico fosse un greco della Magna Grecia salito fino nel nostro pagus sul Montrone per esercitare la sua arte medica.   Quanto all’epigrafia latina, oltre alla lex latina della tavola bronzea, non mancano cippi funerari trovati nei pressi delle ville rustiche di Masseria Ciccotti e San Gilio. Sono i tituli sepulcrales di Annio Nocerino e di Valerio Secondo, trovati durante lavori di aratura. Le due epigrafi sono state pubblicate in Oppido Lucano fra storia e preistoria, invece scientificamente sono state interpretate e studiate da Helga Di Giuseppe in Felicitas temporum, un ponderoso volume che dedica circa 300 pagine a Oppido Lucano.

       Il monumento epigrafico più importante è senza dubbio il retro della  lastra bronzea  in lingua osca che va sotto il nome di Tabula Bantina.  Ubicata nel declivio del Montrone, che guarda Acerenza, una tomba ha restituito una  lastra bronzea opistografa in tre frammenti, in due modi diversi e in due momenti distanti nel tempo. Il primo e più grande frammento fu trovato dalla zappa di due contadini, dei quali si conosce il nome: Canio e Francesco Grieco, nel 1790, i quali, certamente, si accanirono su di essa per un ipotetico e fantomatico tesoro; il secondo quasi due secoli dopo durante la campagna di scavo nel 1967 condotta da Lisa Caronna Lissi. La lastra porta il nome di tavola bantina perché nel retro è graffita in osco la costituzione del municipio romano di Bantia, mentre nel recto è riportata una lex latina.                 

      La Tavola bantina, trovata prima delle etichette, ma databile al I sec. a. C.,  ha fatto conoscere Oppido nell’ambito degli studi archeologici del mondo italico. Non v’è archeologo studioso del mondo italico preromano che non si sia imbattuto nella Tavola bantina e quindi in Oppido, luogo del ritrovamento forse del maggior documento epigrafico osco ed il più importante della cultura lucana antica preromana. Non è tale per il materiale con cui è formato il reperto, ma lo è perché reca due iscrizioni del primo secolo a. C. che aprono una pagina importante sulla conoscenza del diritto romano. Conosciamo il latino nella sua evoluzione diacronica  e quindi l’interpretazione linguistica della lex latina non ha mai presentato difficoltà per gli studiosi, i giuristi però discutono ancora sulla natura della legge e sulla sua esatta datazione. Invece si è ancora incerti nella interpretazione sia linguistica che giuridica della lex osca che la tavola reca nel retro. I manuali di storia della lingua latina dedicano almeno una citazione al documento bantino.  Vittore Pisani nel volume Le lingue dell’Italia antica oltre il latino dà ampio risalto alla nostra tavola bronzea   con una precisa trascrizione e  un ampio commento glottologico al testo osco. Una delle peculiarità più importanti della nostra tabula è costituita dalla varietà linguistica osca, data soprattutto dalle palatalizzazioni delle consonanti che distinguono nettamente l’osco a tipo nazionale e notevolmente uniforme  dalla varietà di Bantia, l’osco cioè della tavola bantina, giunto a noi  nell’alfabeto latino e che costituisce il monumento dialettale più importante di questa lingua (V. Pisani, op. cit.). Questo è il secondo più lungo documento in lingua osca ed afferma una indipendenza dell’osco della tabula rispetto alle altre lingue dell’Italia antica.

      Fu durante una lezione di grammatica storica della lingua latina che chi scrive conobbe l’esistenza del documento. Il prof. Francesco Sbordone, parlando dell’osco come una delle  lingue italiche prelatine che parlavano i popoli che Roma assoggettava, citò nella lezione e cita nel suo manuale cinque iscrizioni osche, dando il primo posto alla Tavola bantina, che riporta il testo osco tra i più lunghi e completi che questa lingua ci abbia tramandato. Egli dice che tra i documenti in lingua osca abbiamo: « 1) la Tavola bantina, opistografica, in bronzo, scoperta nel 1793 ad Oppido in Basilicata e conservata nel Museo di Napoli, pubblicata dal Mommsen nel 1850, contiene gli ordinamenti dell’antica città di Bantia presso Venosa ( F. Sbordone, Grammatica storica della lingua latina, LSE, Napoli)». Il toponimo Oppido Lucano, pronunciato durante una lezione universitaria, richiamò l’attenzione, oltre che mia,  di una mia amica che si rivolse verso di me sussurrando il mio nome. Se ne accorse il professore che chiese il perché di tutto ciò. Il professore volle sapere se in paese il reperto fosse conosciuto. Risposi di no, anche perché io non lo conoscevo. Fu per me una scoperta e mi aprì un mondo ancora sconosciuto su Oppido, quello dell’archeologia. Andai al Museo Nazionale per vedere la tavola bronzea. Il custode al quale mi rivolsi mi disse che non ne sapeva nulla; un archeologo invece mi parlò della sua esistenza, ma che non era esposta e quindi non poteva essere messa alla mia attenzione. Si trovava nei depositi, ai quali non era possibile accedere. Mi accontentai di vedere il testo trascritto in volumi ottocenteschi, ma come era naturale, leggendo quel testo osco, non capii nulla.

La Tavola bronzea è un documento prezioso sotto ogni aspetto e non solo fra quelli rinvenuti a Oppido, ma nella Lucania intera ed in tutto il territorio abitato dagli osci. È di inestimabile valore archeologico, storico, giuridico e linguistico. Questa tavola bronzea, tra i reperti lucani, per importanza di contenuto, si affianca alla Tavola di Eraclea, ma, a differenza di questa, ha una ulteriore importanza quale documento linguistico, in quanto, dopo le umbre Tavole Eugubine, è il maggiore reperto in lingua osca. Le Eugubine ci riportano l’osco-umbro, linguisticamente però più vicina alla nostra tabula è la tabula di Agnone, una cittadina del Molise. Gli studiosi dell’epoca del ritrovamento  considerarono molto alto il valore archeologico del reperto pur non avendone  ancora interpretato il testo. Il Museo Archeologico di Napoli, allora Borbonico,   acquisì il reperto per 400 scudi. Così Andrea Lombardi (Tramutola 1785-1849) in La Corona di Critonio nel 1836, quando il raccontato era ancora fresco nella memoria, racconta il ritrovamento della tavola: «Oppido ha acquistato una certa celebrità per quella tavola di bronzo, che si scoprì nel suo suolo verso il 1790, e che ha meritato le dotte ed ingegnose illustrazioni del ch. Abate Guarini in  “In veterum monumenta nonnulla commentaria Raymundi Guarini, Neapoli MDCCCXX. Commentarium IV in Tabulae Oppidensis partem primam, de re vestiaria plebiscitum. Commentarium V in Tabulae Oppidensis Lucanorum partem secundam Questo  pregevole monumento fu trovato nel luogo detto Lago della Noce, in poca distanza dall’abitato, dai contadini Canio e Francesco Grieco, e venuto nelle mani  del sig. Domenico Lancellotti, fu acquistato dal Governo, ed or si conserva nel Real Museo Borbonico. La scoperta fu puramente accidentale, poiché mentre i detti contadini lavoravano quel terreno colle zappe, s’imbatterono in un antico sepolcro formato di grandi massi di pietre congiunti insieme e stretti nei quattro lati da forti grappe di ferro, le quali elevandosi sulla lapide superiore, tenevano quasi abbracciata la cennata tavola che giaceva in mezzo, e sulla quale ancora era situato un uccello di bronzo che sembrava un gallo. I contadini non potendo colle mani distaccare la tavola la ruppero con le zappe, ed è perciò  che si vede mutilata, essendosi venduto uno de’ mancanti pezzi ad un negoziante girovago di Bari ed essendo passato l’altro in potere del Sig. Maggiore Larocca pochi anni addietro».

Raimondo Guarini scrive i suoi Cammentari nel 1820, Andrea Lombardi pubblica il volume La Corona di Critonio nel 1836: la tavola porta il nome di Oppidensis perché non ancora si era interpretato l’osco. Andrea Lombardi, intanto, indicando la tavola con il nome di Tavola Oppidana, (Tabula Oppidensis) dà delle notizie sulla pubblicazione e sul contenuto, ma sia il nome che il contenuto sarebbero stati in seguito rivisti, perché l’interpretazione che si era data alla tavola fino al 1836 sarà dimostrata non essere esatta dagli studi successivi del Mommsen e del Kirchoff. Quest’ultimo nel 1853 dimostrò che i due testi, quello latino e quello osco, contenevano leggi diverse, e che la legge osca doveva concernere la comunità di Bantia. Così la Tavola giustamente si chiamò Tabula Bantina. Il racconto del Lombardi evidenzia cosa succede quando i contadini trovano qualcosa nel terreno: costoro immaginano un ipotetico tesoro nascosto e la bramosia li spinge a fracassare il contenente per accedere subito al contenuto. Successe questo anche nel ritrovamento del tesoretto monetale, sempre a Oppido Lucano, durante lavori di sterro nell’estate del 1968 nel vano di una delle abitazioni venute alla luce durante le campagne di scavo. Il tesoretto, custodito oggi nel Museo di Policoro, si compone di 76 monete d’argento delle zecche greche della Magna Grecia (cf. F. Panvini Rosati, Antiche civiltà lucane, 343 ss.). Con le monete furono rinvenute una collanina d’oro, una fibula e due anelli d’argento, datati al IV sec. a. C.  (cf. P.G.Guzzo, Oreficerie della Lucania antica, in Bollettino storico della Basilicata, n. 10). Ritornando al ritrovamento della lastra bronzea, i due contadini oppidani non trovarono il desiderato tesoro, consegnarono però alla cultura e alla storia un monumento unico nel suo genere, resero  famoso il loro paesello nel mondo degli studi romanistici ed archeologici. Una illustre archeologa, Accademica dei Lincei, cittadina onoraria di Oppido, la dottoressa Lisa Caronna Lissi, prima di conoscere Oppido per aver sposato un oppidano, ne conobbe il nome attraverso la tavola bronzea. Della Tavola Bantina parla anche Giacomo Devoto, l’illustre accademico che, nell’aprile del 1970, presiedette il Convegno di studi di archeologia, storia dell’arte e del folklore, che si tenne ad Oppido. Egli così dice in Gli antichi italici: « La pubblicazione degli Atti dei fratelli Arvali, avvenuta nel 1795 per opera di Gaetano Marini, portava un altro contributo al materiale epigrafico italico. Il Marini faceva conoscere il testo del secondo monumento di lingua osca, la “Tavola Bantina” scoperta pochi anni prima ad Oppido in  Lucania, a una ventina di chilometri da Potenza. I particolari del trovamento sono dubbi. La tavola di bronzo che, secondo è stato riconosciuto più tardi, conteneva le leggi di Bantia, era stata sottratta per il suo valore materiale ed era andata a finire in una tomba in aperta campagna. Il suo valore archeologico fu subito considerato e, secondo il Rosini che fu il secondo editore, venne in possesso il Museo di Napoli per 400 scudi. La tavola era in frammenti, non tutti subito conosciuti. Due furono pubblicati posteriormente da F. Avellino; e di questi uno solo riuscì a salvarsi nel Museo borbonico (Oggi Nazionale) mentre il secondo, offerto all’Accademia Ercolanense e in quella occasione copiato, rimase in mano all’offerente».

      Nel tempo la tavola è stata studiata da archeologi, da storici, da giuristi e da linguisti. Ognuno per la sua parte è giunto a delle conclusioni, che molto spesso non convincono. Un manuale di epigrafia latina (I. Calabi, L’uso storiografico delle iscrizioni latine, Milano 1953) definisce come lex rogata la Lex latina tabulae Bantinae, CIL. I, 197). Il frammento bronzeo, dice la studiosa, reca l’ultima parte e la sanctio di una legge probabilmente giudiziaria, del periodo 133-118 a. C. Come lex data la Lex osca tabulae Bantinae, sul retro della lex latina, forse lo statuto municipale dato a Bantia dai commissari romani.

   L’interesse maggiore suscitato dalla Tabula è stato quello dei linguisti. Un testo così lungo di una lingua italica che non fosse latino, non poteva non suscitare grande interesse. L’osco del I sec. a. C.  della Tavola ha delle peculiarità che si riscontrano nel latino arcaico. Trova infatti corrispondenze con la lingua di epigrafi latine  molto più antiche, come ad es. il fhefhaked della Fibula predestina del V sec. trova riscontro  nella nostra tavola in fefacid. Cioè nel I sec. a. C. il latino aveva perduto il raddoppiamento del perfetto, mentre l’osco, più conservativo, lo conserva.  La tavola bantina, inoltre, adotta l’alfabeto etrusco attraverso l’adattamento latino, penetrato in ambiente osco non con un’imposizione violenta di uno strumento straniero, ma con l’introduzione di un pacifico sistema di scrittura, di origine straniera, e tuttavia adeguato alle esigenze dei piccoli nuclei sociali italici (G. Devoto). «La legge venne scritta in osco, per ovvie esigenze divulgative, ma in caratteri latini per altrettanto ovvii motivi di romanizzazione. (Adamasteanu-Torelli)». Ma cosa era l’osco? Cosa ha lasciato in eredità alle genti che nel tempo hanno abitato le terre nelle quali una volta si parlava? I linguisti dicono che nei nostri dialetti il gruppo consonantico nn per nd, come quanne dialetto da  quando dell’italiano è un reperto linguistico osco. L’osco della Tavola bantina presenta caratteristiche lessicali che non hanno riscontro nel resto del corpus osco e per questo classificate come bantinismi, dice Loretta Del Tutto Palma, la quale sostiene inoltre che la Tavola bantina assume il ruolo di dato sociolinguistico fondamentale: la presenza di una lingua non latina non è spontanea, ma frutto di un impegno volontario in una prospettiva ideologica in cui la lingua è espressione (e in questo caso anche contenuto) di identità culturale. (Loretta Del Tutto Palma, La Tavola bantina (sezione osca): proposta di rilettura, Padova-  Urbino 1983, p. 56)”. L’uso dell’osco nella trascrizione dello statuto bantino segna una grande proclamazione di identità del popolo osco ma anche un fatto culturale per noi che dopo duemila anni possiamo conoscere non solo la lingua di quel popolo che abitava le nostre terre, ma anche l’anima, se la lingua è l’anima dei popoli.

      Riportiamo una sola frase della lex osca nella quale ricorre il toponimo Bantia come esempio:  censtur bansaetoutam censazet pis ceus bantins fust; in latino si ha: cum censores Bantiaepopulum censebunt, qui civis bantinus erit… = quando i censori a Banzi faranno il censimento del popolo, colui il quale sarà cittadino bantino… dove la parola osca  toutam corrisponde al latino populum.

     Più che con le armi Roma ha conquistato e dominato prima i popoli italici, poi tutti i regni rivieraschi del Mediterraneo, con il diritto. In Italia dopo la guerra sociale combattuta dai romani contro i soci che chiedevano la cittadinanza romana per essere equiparati agli abitanti dell’Urbe, il senato romano fu costretto ad estendere l’istituto del municipium ad un numero sempre maggiore di città. Sappiamo che sia Potentia che Bantia ebbero questo privilegio. Gli abitanti dei municipi furono così incorporati nella cittadinanza romana con maggiori o minori diritti, ma essi continuarono ad abitare nella loro città, alla quale è concessa autonomia amministrativa. I municipes potevano essere tanto cittadini romani con pieni diritti politici e iscritti perciò ad una tribù, quanto sudditi senza diritto di voto (cives sine suffragio) che non possedevano neanche il commercium e il connubium con Roma (A. Degrassi, L’amministrazione delle città). A quale di queste due categorie appartenevano i cittadini di Bantia? Erano di una città federata e alloglotta, e poco adatti alla piena comunanza politica, ed ebbero perciò la civitas sine suffragio? Certo è che fu concessa loro l’autonomia amministrativa e nacque così lo statuto bantino, in lingua osca, unico nel suo genere che l’archeologia ci abbia fatto conoscere. È opinabile che non fu solo Bantia ad avere una “costituzione” scritta, ma la storia ha voluto che si salvasse solo questa di Bantia, una piccola città osco-lucana, la cui importanza veniva oscurata da città vicine ben più importanti. Mario Torelli (Il nuovo frammento della Tabula bantina cit.) sostiene che Bantia ha tratto il modello per il proprio assetto costituzionale dalla vicina Venusia, rinunziando alla magistratura osca dei meddices per assumere una fisionomia completamente latino.romana, e quindi la introduzione a Bantia dei questori, dei censori e dei pretori.  La romanizzazione, che si concretizzò dopo la guerra sociale, sancì però la fine della civiltà  e della confederazione osca preromana non solo in queste terre periferiche rispetto a Roma. Se, come gli studiosi pensano, lo statuto fu dato a Bantia intorno al 100 a. C., esso fu operante per pochi anni, in quanto la guerra sociale con l’elargizione della cittadinanza romana a tutti i soci, tolse come conseguenza ogni autonomia amministrativa. Lo statuto municipale,  è ipotizzabile, venne inciso sulla lastra bronzea per Bantia, perché questa comunità era a capo della federazione, quando già la sua vicina Venusia godeva di una acculturazione data dalla romanizzazione, che da tempo le aveva dato prestigio e potenza nei confronti delle genti daune da un lato e osche dall’altro. All’organizzazione amministrativa di questa potente colonia i cittadini di Bantia, o chi per loro, si sono potuto ispirare. Senza dubbio Venosa era un modello per le civitates che la circondavano. Incidere una legge su una lastra di bronzo significava farla conoscere a quei pochi che sapevano leggere e per mezzo di questi al popolo.  Fu usato il retro di una lastra già incisa con una legge latina. Per chi era questa legge? A quale comunità era destinata? E per quale motivo si trovava a Bantia o vi fu portata perché fosse incisa sul retro la lex osca? Ma la lex osca fu incisa a Bantia o altrove per essere portata qui in un secondo tempo ed essere esposta nel luogo più importante della città? E la lex latina era per la confederazione osca o anche per essa? Sono queste questioni ancora da chiarire, e non tocca certo a noi chiarirle. Il latino e l’osco sulla stessa lastra bronzea stanno ad indicare che il popolo della federazione bantina usava ancora due lingue: quella dei conquistatori e la propria?. Ad ogni modo si era in un periodo nel quale la latinizzazione non aveva ancora soppiantato la lingua osca, ma il latino stava diventando la lingua comune degli italici. Per tutti i popoli italici perdere la lingua ha significato perdere l’anima. La lingua è il maggior elemento di integrazione di un popolo, e quando i popoli italici diventarono latini di lingua, diventarono romani.

Il termine municipium etimologicamente significa munus capio, cioè ricevo un favore, un ufficio da disimpegnare in qualche sfera dell’attività. Con la lex Iulia del 90 a. C.  tutte le città d’Italia vennero elevate al grado di municipi con pieno diritto di cittadinanza e di autonomia amministrativa,  dando luogo a speciali leggi municipali. In questa organizzazione può essere inserito anche il centro di quella federazione osca che aveva nome Bantia. Lo statuto ci dice che Bantia conservò gli antichi diritti locali con la possibilità di darsi leggi, purché non fossero in contrasto con le leggi romane. E Bantia si diede le proprie leggi, non rinunziando  alla propria anima e cultura osche, come dimostra la lingua osca, mezzo linguistico usato nell’incidere lo statuto municipale sulla tavola bronzea. Sulla quale in alfabeto latino «sul verso è incisa la legge latina, la quale occupandosi di IIIviri agris dandis assignandis dev’essere degli anni fra il 133 e il 118 a. C.; e la data della legge osca sarà probabilmente identica, ciò secondo il Mommsen (ad. CIL. I, 197), il quale pensa che ambedue le iscrizioni rientrino in un foedus fra Bantia e Roma. Secondo il Kirchoff (Das Staatscrecht von Bantia, 1853) le due iscrizioni sono indipendenti fra loro, quella osca una revisione della costituzione di Bantia, più o meno sul modello romano: egli ritiene l’iscrizione anteriore alla costituzione sillana. Secondo il Maschke, invece, la legge latina sarebbe quella Apuleia del 100 a. C. Caduto Apuleio  Saturnino, e quindi la sua legge, il bronzo fu riadoperato per incidere la legge osca ( V. Pisani, Le lingue dell’Italia antica oltre il latino, Torino, 1964». Che la legge osca sia stata incisa dopo quella latina lo dimostra il foro del frammento trovato nell’estate del 1967, che mentre danneggia il latino, reca scritto l’osco a un lato e l’altro del foro. Anche questo frammento, conservato nel Museo Nazionale di Venosa è stato trovato nella stessa località Lago della Noce in cui fu trovato il frammento del 1790. È un bronzo opistografo, e per le sue caratteristiche non è altro che una parte della Tavola Bantina, anche se non presenta possibilità di essere unito al frammento più grosso del Museo di Napoli. Questo sta a significare che altri frammenti o sono andati perduti o sono ancora da scoprire. Il sovrintendente Dinu Adamesteanu  affidò lo studio e l’interpretazione del frammento del 1968 a Mario Torelli. L’interpretazione del Torelli  è pubblicata in Archeologia Classica, XXI, I, (1969).

Oggi sulle due leggi si versano ancora fiumi di inchiostro. Sulla legge latina si discute dal punto di vista storico e giuridico, gli studiosi infatti non sono ancora d’accordo sulla natura della lex latina: una legge agraria o un lex iudiciaria del 100 a. C.? ( Sulla Lex latina Tabulae Bantinae è stata scritta una ottima tesi di laurea da un nostro concittadino, Rocco Maglione, per la sua laurea in Giurisprudenza, discussa a Napoli presso la Federico II nell’anno accademico 2003-2004).

La Tavola Bantina osca pone allo studioso non pochi problemi di lettura e di interpretazione: essa ha un’impostazione romana, effetto della romanizzazione della società osca oppure possiede elementi osci romanizzati, a parte la lingua? Il testo osco riporta il termine senateis, esso è una traslitterazione del latino senatus per indicare il consiglio osco di Bantia, al quale partecipavano persone di tutta la federazione di pagi, oppure una nuova istituzione sul modello di quanto avveniva a Venusia, città romana fin dalla fondazione? È una questione ancora irrisolta. Mario Zotta vede la superiorità e la lungimiranza di Roma e della sua legislazione ( Zotta scriveva nel 1942, L’organizzazione degli Italici sotto l’egeminia di Roma e la tavola bantina, in Rivista di Diritto pubblico – la giustizia amministrativa. XX, 1942, 202), oggi si cerca di porre nella giusta posizione l’elemento osco, partendo dal testo della tavola senza pregiudizi e forzature con un’acribia linguistica e storica che una ricerca scientifica pretende. L’uso di una terminologia tecnica latina fa pensare che la lex osca sia stata scritta prima in latino e poi tradotta in osco, come pensa qualche studioso. «Dobbiamo immaginare – dice M. Torelli -  che la formulazione della legge sia dovuta all’opera di commissari romani: la traduzione forse realizzata a Roma stessa venne incisa da uno scriba non del tutto padrone della lingua osca o, meglio, fortemente influenzato dalla lingua latina. La legge venne scritta in osco per ovvie esigenze divulgative, ma in caratteri latini per altrettanto ovvii motivi di romanizzazione (op. cit.)».

 Sulla legge osca si discute soprattutto sul piano linguistico. L’osco della tavola è il secondo più lungo documento di questa lingua italica, parlata in tutta la penisola dall’Umbria fino al Bruzio. L’epigrafe   offre uno  spaccato linguistico importantissimo in quanto fa conoscere molto di questa lingua che una volta aveva una diffusione maggiore del latino. Se è di inestimabile valore per la linguistica storica delle lingue italiche, non è da meno per la storia civile. Essa tratta del diritto tribunizio e delle norme procedurali del processo civile e penale in un piccolo municipio periferico che ancora non aveva raggiunto la piena romanizzazione. L’ultima parte ci fa conoscere la successione delle magistrature bantine: questura, pretura, censura. Il cursus honorum bantino è formulato sul modello delle colonie romane più antiche, e certamente su di esso molto avrà influito la costituzione della vicina e potente Venusia. I municipia, per quanto autonomi potessero essere, dovevano pur sempre muoversi nella legalità romana e nell’emanare le loro costituzioni dovevano mantenersi nell’ambito della legge romana.

Per rendersi conto del perché di una legge su tavola bronzea scritta in latino ed in osco riguardante la seconda, quella in osco, una federazione di popoli del l’Altobradano, è necessario conoscere almeno molto sommariamente qualche notizia sugli osci, sui lucani e sui romani nel periodo cui la tavola va assegnata.

Questa tavola bronzea è una tessera di un vasto mosaico dei documenti epigrafici che il mondo romano ha tramandato, è uno di quei rari documenti della storia della nostra zona, di quell’Altobradano, che è stato un territorio considerato sempre di margine fra i popoli lucani da un lato e  dauni e iapigi dall’altro. La tavola assegna senz’altro tutto l’Altobradano al popolo osco, e quindi lucano, che con fatica, entrato nell’orbita della politica romana, si andava  romanizzando. La federazione bantina occupava a un di presso il territorio che oggi costituisce la Comunità Montana dell’Altobradano. Gli stessi insediamenti demici formavano la federazione antica e formano la comunità montana moderna, tutti  dalla lunga e variegata storia, che studiosi locali sviscerano con appassionata acribia per cercare di capire cosa è successo nella zona dopo lo splendore delle grandi necropoli osco-lucane e delle grandi ville rustiche romane del I e II sec. d. C. I Lucani furono conquistati con fatica,  lo abbiamo già detto, tanto che nell’epitaffio di Lucio Cornelio Scipione Barbato leggiamo: subigit omne Loucanam opsidesque abducit, (soggiogò tutta la Lucania e ne trasse ostaggi). Ridotto il territorio un immenso ager publicus, cioè di proprietà del senato romano, il quale poi lo assegnava in comodato gratuito ai potenti optimates, (questo spiega le numerose ville rustiche in Lucania),  la regione perdette ogni importanza. Se è vero che la Tavola bronzea è del primo secolo a. C., come tutti gli studiosi dicono, e si è avuto la necessità di scrivere lo statuto di una comunità della zona, Bantia, municipium che comprendeva i paghi di Festula e Opinum, posti in territori a destra e a sinistra del Bradano, di lingua osca sia il municipium che i paghi, è anche vero che un centinaio di anni dopo sullo stesso territorio avevano vita floride ville rustiche romane, quali quelle di Masseria Ciccotti e di San Gilio in agro di Oppido (Opinum), di San Pietro in agro di Tolve e in agro di Banzi (per le ville rustiche si confronti Felicitas temporum a cura di Helga Di Giuseppe, Potenza). Le ville rustiche non sono altro che l’effetto di una intensa romanizzazione di tutta la zona, iniziata certo sotto l’influsso della colonia romana di Venusia, fondata nel 291 a. C. ove Roma dedusse ben 20.000 coloni, popolazione di gran lunga superiore a tante colonie dedotte da Roma nei territori conquistati. La romanizzazione comportò dei cambiamenti radicali negli usi e nei costumi dei popoli, anche se Roma non imponeva con la forza le sue leggi e le sue usanze. I pagi posti sulle alture (i loca munita di Tito Livio) si svuotarono, lasciando ai posteri estese necropoli venute alla luce nella seconda metà del XX secolo. Opinum, l’ipotetico pago del Montrone, si spostò a valle lasciando nelle viscere della terra le numerose tombe scavate dalla nostra concittadina Lisa Caronna Lissi (si confrontino al riguardo i risultati degli scavi portati a termine da Caronna Lissi negli Atti dell’Accademia dei Lincei, sono oltre 700 pagine che documentano tutto quello che è stato scavato). La stessa Bantia, una volta dissolto il foedus bantinum, perdette di importanza a vantaggio della vicina potente Venosa, ha lasciato ai posteri una vasta e ricca necropoli con sepolture uguali a quelle della necropoli di Oppido, ville rustiche che testimoniano non solo il cambiamento, ma anche la continuità abitativa della zona. Tra i centri moderni di Oppido e  Banzi vi è Genzano, per il quale si ipotizza una origine da un latifondo romano,  fundus Gentianus, che non era altro che una villa rustica. (M. Battaglino, Ipotesi sulle Origini di Genzano).

Le norme dello statuto bantino  riguardavano tutto il popolo della federazione e non solo Bantia, quindi anche Festula, Opinum, Bantia ed alti pagi. Esse riguardavano l’organizzazione amministrativa della federazione e furono in vigore fino a quando prese piede l’istituto del municipium, cioè dopo la guerra sociale, il bellum sociale, combattuto da Roma contro gli italici, essendo a capo dei lucani Gaio Lamponio. Lo statuto sanciva norme sul diritto di veto, sui comizi giudiziari, sul censo, sul diritto civile, ed infine sul cursus honorum, sul quale riportiamo da G. Devoto: «L’esistenza, in luogo dei meddices, delle magistrature romane più importanti è attestata chiaramente, con abbreviazioni romane e con l’indicazione della gerarchia. Si legge:

Osco - Pr. censtur Bansae (ne pis fuid, nei suae q. fust, nep censtur fuid, nei suae pr. fust.

 Trascrizione latina -  Praetor censor Bantiae (ne quis fu)erit, nisi quaestor fuerit, neque censor fuerit, nisi praetor fuerit.

Traduzione italiana -  Pretore né censore in Bantia non sia chi non è questore, né sia censore chi non è stato pretore”.

 Il censore è dunque la più alta dignità, il pretore quella media, il questore quella inferiore. Che il pretore sia al di sotto del censore, si spiega molto bene, pensando che al pretore in Bantia non poteva toccare la responsabilità di un comando militare, che in Roma lo rialzava invece al di sopra del censore». La norma prosegue dicendo che “se alcuno sarà stato pretore, non potrà più essere tribuno della plebe”. Indubbiamente lo statuto bantino si è ispirato ad un modello complesso, di ascendenza romana, come dichiara l’introduzione di un importante elemento della costituzione romana: il tribunato della plebe. Lo statuto bantino, dice G. Devoto, contiene ciò che difficilmente sarebbe consacrato nella legge fondamentale di una piccola città lucana. Questo ha spinto molti studiosi a ritenere che lo statuto bantino sia stato formulato in latino da magistrati romani, poi tradotto in osco, sia stato inciso nel retro di una tavola di bronzo recante una legge romana non più in vigore.

La Fossa bradanica o premurgiana è un territorio periferico sia della Puglia che della Lucania, per cui sorge spontanea la domanda: il foedus bantinum, oggi Altobradano, insisteva nel territorio della Lucania o della  Puglia? Considerando gli usi e i costumi di coloro che lo abitavano, dobbiamo senz’altro dire in Lucania, anche se Orazio si riteneva anceps, lucano e apulo nello stesso tempo, ma nelle sue poesie parla di una amica lucana e dell’ottima carne dell’aper lucanus (cinghiale lucano). Inoltre la lingua dei popoli indigeni del I sec. a. C. era l’osco, lingua delle federazioni dei popoli lucani: diversamente non si spiegherebbe l’osco nella nostra tavola bronzea. Per non allontanarci dalla nostra zona, se guardiamo alle necropoli scavate sul Montrone di Oppido, a Rossano di Vaglio, a Torretta di Pietragalla e alla necropoli di Banzi dobbiamo dire che queste comunità erano lucane in quanto le tombe presentano per tipologia la stessa struttura: il cadavere è in posizione contratta, rannicchiato, il corredo tombale  quasi uguale ha dato gli stessi reperti e la stessa ceramica. I pagi delle due federazioni, Bantina e Potentina, erano, come dice Livio, degli insediamenti del popolo lucano, non solo vicatim, sparsi in vici, in villaggi formati anche da pochi nuclei familiari,  ma anche in loca munita, cioè posti sulle cime dei monti. La popolazione si raccoglieva in pagi, e il pagus, un termine osco passato nella lingua latina, costituiva un distretto rurale che non dipendeva in tutto da quello più importante dove risiedevano i magistrati. Un insieme di pagi formava una strutturazione territoriale superiore, chiamata touto, termine osco che ha in comune la radice indoeuropea con il termine latino tutela.

Gli oschi, pertanto, come gli altri popoli italici, vivevano sparsi in borghi rurali anche piccolissimi, federati fra di loro. Ogni federazione aveva la sua capitale, nella quale si svolgevano le assemblee e dove, in occasione delle festività solenni istituite sin dall’origine dal consesso dei popoli confederati, intervenivano i magistrati. Dopo i riti propiziatori celebrati nel tempio, che era il centro oltre che religioso anche politico e sociale della vita della federazione, si trattavano gli affari della repubblica. Varrone ci parla dell’esistenza di questo templum nelle popolazioni italiche, ma l’archeologia fino alla scoperta di quello di Banzi non conosceva altro templum auguraculum. In Lucania, nella nostra zona in particolare, l’archeologia ci ha fatto conoscere lo statuto di una di tali repubbliche (quello di Banzi) e l’esistenza di due centri di culto, appartenenti a due popoli lucani, il templum auguraculum di Banzi e quello ben più famoso della dea Mefitis a Rossano di Vaglio del popolo potentino. Il templum, secondo Varrone ( De lingua latina, VII, 8) sulla terra è il luogo delimitato con determinate formule al fine di trarvi i presagi, prendervi gli auspici. La nazione lucana era formata da undici federazioni di varia grandezza ed importanza. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, III, 2, dice: Lucanorum autem Atinates, Bantini, Eburini, Grumentini, Potentini, Sontini, Sirini, Tergilani, Ursentini, Vulcentini, quibus Numestrani iunguntur (dei Lucani gli Atinati, i Bantini, gli Eburini, i Grumentini, i Potentini, i Sontini, i Sirini, i Tergilani, gli Ursentini, i Vulcentani, ai quali si devono aggiungere i Numistrani). I Bantini, quindi, erano una delle federazioni dalle quali era formata la nazione lucana. Il popolo prendeva nome, in genere, dalla capitale del foedus, che comprendeva, come si è visto, vari pagi o vici. Quali e quanti facevano capo a Bantia, capitale del popolo bantino, il quale, come tutti i lucani, viveva vicatim? Il Lenormant dice che qualunque sia stato il fatto che fece scoprire la legge municipale di Banzi nella località di Oppido, ne risulta un dato geografico importante, cioè che questa località era compresa nel territorio del Municipio dei Bantini, il quale si estendeva da nord est a sud-est di Acerenza, di cui Oppido è vicinissimo. Il ritrovamento a Oppido (Opinum) della tavola bronzea che tramanda in osco con caratteri latini la costituzione di Bantia, prima città osca, poi municipio romano, assegna senz’altro l’abitato del Montrone al foedus di Bantia. A Bantia nel templum auguraculum i cittadini di Opinum prendevano parte alle assemblee, ai riti sacri, alle dispute e alle controversie; ai magistrati di Bantia gli abitanti di Opinum erano sottomessi, a Bantia mandavano i loro rappresentanti, con Bantia Opinum era collegato con una strada che portava a Rossano di Vaglio e proseguiva fino a Grumentum.

L’abitato di Opinum era situato sulla cima del Montrone, come era costume dei lucani, in posizione molto valida e per la difesa contro incursioni nemiche e perché ottimo luogo di osservazione per prevenire tali incursioni; non molto lontano dal fiume Bradano. Gli alvei dei fiumi nell’antichità costituivano ottime vie di penetrazione nell’interno e quindi anche di comunicazione. La posizione dei centri lucani sulle cime dei monti ha origine remota, risale alla preistoria lucana. Silvio Ferri dice: «I lukaoni-Lukani per dimora stabile hanno scelto la cima delle montagne della odierna Basilicata, una accanto all’altra, come per difendersi meglio; sono sempre rimasti lì. Noi ce li ritroviamo nel I millennio a. C. e corrispondono ancora, su per giù alle cittadine odierne : è la Lukania dei Lucani. I famosi loca munita di Livio (VIII, 27) nei quali i Sanniti imposero presidi cautelari nel 326 a. C., sono appunto queste cittadine lucane secolari (S. Ferri, Nuovi dati e nuove ipotesi sull’origine dei Lucani, in Antiche civiltà lucane)». L’abitato del Montrone era senza dubbio uno di questi loca munita lucanorum e faceva parte della federazione bantina. Non è agevole individuare gli altri vici che ne facevano parte. Tra le località finitime non faceva parte Acherontia (Acerenza),  perché municipio a sé, poteva far parte Forentum, o meglio l’abitato esistente ove oggi si trova la moderna Forenza, senza dubbio faceva parte Festula, l’odierna Genzano, vicus (villaggio) posto tra Opinum e Bantia.

Problema irrisolto è perché la tavola bronzea recante lo statuto della città di Bantia, sia stata trovata in un pagus e non nel centro più importante. Nessuno mai potrà risolvere il problema. Dinu Adamasteanu suppone che «date le circostanze vecchie e nuove del trovamento e in considerazione della posizione isolata dell’edificio contenente i frammenti bronzei, che tale edificio, certamente d’età romana, fosse destinato ad usi funzionali e pratici: insieme alla raccolta di residui metallici per una successiva fusione: infatti assieme ai frammenti della tavola iscritta nel 1970, furono trovati altri oggetti bronzei, oggetti miscellanei e non legati fra loro da alcun nesso funzionale o logico».

L’indagine archeologica difficilmente riuscirà a chiarire i perché della Tavola a Oppido: esposizione anche in un pagus o trafugamento per il valore venale del bronzo, per poi, a fusione non avvenuta, ornamento della tomba di un personaggio del luogo? È questo un problema che non verrà risolto. Ma sulla Tavola non incombe solo questo mistero: su tutto il contenuto sono state fatte ipotesi e congetture che il più delle volte non persuadono.  Ad ogni modo  i due paesi moderni, Oppido e Banzi,  vanno orgogliosi uno del ritrovamento nelle sue viscere, l’altro del contenuto che dà nome alla tavola. Ma se la tavola dovesse tornare in Lucania, dove dovrebbe essere ospitata? A Oppido o a Banzi? Si scatenerebbe la guerra dei poveri! Per questo è un bene per tutti che stia in un museo di prestigio quale è il Museo Archeologico di Napoli, dove purtroppo non ha l’esposizione che merita. Sul perché sia stata trovata a Oppido si può ipotizzare che sia stata portata a Oppido, perché fosse esposta anche in un pagus della federazione oppure fosse stata trafugata per il suo valore venale oppure come sostiene Adamesteanu per essere fusa, quando ormai il templum auguraculum aveva perduto d’importanza, la federazione osca non aveva più valore e il contenuto della tavola, sia la lex latina che la lex osca, erano ormai superate dalle nuove disposizioni che il senato romano emanava per tutti diventati ormai romani.

Ultima modifica il Lunedì, 19 Gennaio 2015 21:30
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