Lunedì, 02 Febbraio 2015 22:11

Pensare la morte da cristiani

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Il caso serio della vita

Ogni vivente da sempre si pone di fronte alla morte. Non quella degli altri, che ci fa stare solo male o al limite ci lascia indifferenti. Ma è la propria morte il caso serio di ogni esistenza. In questi giorni poi, la commemorazione di tutti i santi e dei defunti costringono tutti a riflettere sulla fine dell’esistenza terrena.Sono tanti gli approcci. E tutti interessanti. Da quello letterario a quello filosofico. Mi limito a sottoporre all’attenzione del lettore solo due tra le tante pagine che possono sostenere il “pensare la morte”: un brano di san Paolo spiegato dal card. Martini e il testamento spirituale di Papa Paolo VI.

 

Paolo di fronte alla morte (Carlo Maria Martini)

Tutti noi, ogni donna e ogni uomo della terra, vive di fronte alla prospettiva della morte, ma diversi sono gli atteggiamenti che si assumono al riguardo: c'è chi la esorcizza non pensandoci, c'è chi si angoscia eccessivamente e c'è, invece, chi riesce a trovare l'atteggiamento giusto. Il prenderne coscienza è comunque fondamentale, come fondamentale è la perseveranza finale, che è la grazia più grande di qualunque altra grazia.


Il tema attraversa tutte le lettere dell'Apostolo, mostrando la coscienza chiara, non solo generica, che aveva della propria morte. ... Egli ci è dunque di esempio anche nel momento decisivo della vita, nel quale ci giochiamo davvero e nel quale il nemico dell'uomo gioca la sua ultima partita schiavizzandoci con la paura. Tale paura è la radice di tutti gli atteggiamenti mondani: la voglia di possedere, di consumare, di prevaricare, l'ansia di ottenere le cose subito, illudendosi di superare in qualche modo la morte, di tenerla in mano. E pure i comportamenti sbagliati di avarizia, di violenza, di sensualità derivano dalla paura che la vita abbia fine. C'è per così dire, la vittoria cattiva sulla paura della morte, propria di coloro che si affannano per dimenticarla e c'è la vittoria buona di Gesù e con Gesù, che ci fa accogliere la morte e superare la paura di morire.

…….

Vorrei ora meditare II Tm 4, 6-8, per capire come Paolo esprime la coscienza autobiografica al termine della sua esistenza.

Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

-” Io infatti sto già per essere versato in offerta” In greco abbiamo una sola parola: spéndomai, sono nella condizione di chi si sente versato in libagione…. L'immagine della libagione è quella del versare vino o acqua o olio sulla vittima. E il sacrificio di cui parla Paolo è quello “della vostra fede”; ha il dono straordinario di completare tale sacrificio lasciandosi versare in libagione. L'allusione è ai sacrifici della Bibbia, ma i pagani non erano estranei a questo linguaggio il cui testo classico è in Es 29,38-41.

L'Apostolo avverte che la sua morte ha un valore sacrificale e non riguarda solo lui, ma pure la Chiesa, gli altri, e ciò gli dà gioia, come abbiamo letto anche in Col 1, 24: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”.

Solo un salto di qualità nella fede, umanamente inimmaginabile, non programmabile, può far pronunciare e vivere parole del genere; è il fuoco dello Spirito che lo fa compiere a Paolo e può farlo compiere anche a noi. Siamo invitati ad affidarci a Dio infinitamente grande e misericordioso, a Colui che ci dona di vincere il timore della morte e addirittura di interpretare la morte liturgicamente, in modo sacrificale. Vedete com'è ricco il semplice verbo spéndomai che considerato alla luce delle Scritture e di altre lettere paoline, assume un preziosissimo valore di rivelazione del senso della vita e della morte.

- “è giunto il momento che io lasci questa vita”. Anche in questo caso, il greco ha un solo vocabolo, análusis, scioglimento, e non si tratta di vele, pur se il termine può avere owiamente quel significato. In Fil 1, 23, leggiamo: “Sono messo alle strette fra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio…”. Comunque il sostantivo análusis- che si può applicare all'inizio o alla fine di un viaggio in mare, all'arrotolamento di una tenda quando il cammino è compiuto oppure perché comincia il giorno - sottolinea una fine e un inizio e quindi Paolo lo usa per esprimere come

interpreta e come vive la sua morte.

-”Ho combattuto la buona battaglia” è la terza metafora che sembra riferirsi al mistero come agone, come lotta. L’Apostolo ne aveva già parlato in 1 Tm 1,18-19:”Questo è l’avvertimento che ti dò, figlio mio Timoteo, in accordo con le profezie che sono state fatte a tuo riguardo, perchè, fondato su di esse, tu combatta la tua buona battaglia” del ministero “con fede e con buona coscienza”.

Più che battaglia, il termine greco agòn ha un significato sportivo, sottolinea le fatiche la polvere, il caldo, il sudore, lo stremarsi delle forze sia nella corsa sia nel pugilato.

”Ho combattuto la buona battaglia” caro Timoteo, e mi è venuto il fiato corto, credevo di non farcela, però ho stretto i denti e ho proseguito.

L’aver concluso il ministero permanendo nella lotta e non facendosi squalificare, è qualcosa che sente quale grandissimo dono del Signore

-”Ho terminato la mia corsa”, ho la coscienza di essere andato fino alla fine, fino al traguardo. Se l'immagine precedente si riferiva alla coscienza di non essere venuto meno sotto i duri colpi della lotta, ora sottolinea quella di aver compiuto la corsa. «Non» “Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, purchè conduca a termine la mia corsa e il mio servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio” (At 20, 24). Si è realizzato il desiderio espresso nel discorso di Mileto: lo Spirito ha infuso in Paolo la grazia di resistere e di non venire mai meno al suo servizio.

-”Ho conservato la fede” «fidem», è una parola che ci offre due messaggi in corrispondenza di due significati: soggettivamente, dobbiamo mantenere la fedeltà e la morte sarà allora per noi il termine di un cammino interiormente perseverante; oggettivamente, non dobbiamo tradire quel deposito di fedeltà che si riassume nel primato di Dio, di Cristo, della grazia.

- “Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”«Ora». Paolo supera il timore della morte guardando oltre, perché ha davanti una splendida prospettiva di vita. E’ commovente la metafora della”corona di giustizia” «corona»; egli infatti ha lottato affinché la sua giustizia non si appoggiasse alle opere o alla legge, bensì alla grazia e alla misericordia divina. Ed ecco che Dio stesso lo incoronerà con la giustizia da lui preparata amorevolmente per il suo Apostolo.

Come Paolo legge la sua morte

Abbiamo detto che la paura della morte è inseparabile da noi, è parte inscindibile del senso della vita, ed è talmente forte da diventare lo strumento di satana per guidarci o alla divagazione totale o alla disperazione. La divagazione totale ci fa gestire la vita come se la morte non fosse un evento reale; la disperazione ci spinge a forme di anticipo della morte (droga, autolesionismo, suicidio ecc..

Come Paolo legge la sua morte, istruito dalla morte e dalla risurrezione di Gesù, dalla rivelazione, dall'attesa della parusia. Sono tanti gli atteggiamenti da lui richiamati perché la coscienza ormai integrata che aveva acquisito durante la sua esistenza, gli permetteva di vivere serenamente e con libertà l'avvicinarsi della morte, completamente abbandonato a Dio. Ne ho scelti cinque, raccogliendo i pensieri da II Timoteo e da altri suoi scritti:

- legge la morte in relazione all'eternità;

- la legge in relazione a Cristo;

- la legge come sacrificio unito a quello di Gesù;

- come morte per la Chiesa, per gli eletti;

- come commiato alla fine di un viaggio.

1. "La morte in relazione all'eternità". - E’ questo il vero orizzonte che libera non quando lo si pensa soltanto mentalmente, ma quando viene infuso in noi dalla grazia vittoriosa di Cristo. Un tale modo di leggere la morte è ormai raro anche fra i cristiani. Alcune indagini di opinione affermano che i cristiani non credono troppo a una vita dopo la morte; sono persone attive, impegnate, e però l'idea dell'eternità, dono di Dio, è loro estranea. Non a caso Jean Guitton e altri pensatori hanno parlato del "silenzio sull'essenziale", cioè del silenzio sulla vita eterna, diventato frequente, almeno in Europa. Dice anzi Guitton che attualmente i discorsi funebri sono pieni di elogi sul defunto, senza accenni all'eternità, quasi non esistesse. La prospettiva di Paolo è una grazia grandissima, e su di essa dobbiamo esaminarci. Mi limito a ricordare Fil 3,13-14: “Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”«Dimentico».

La coscienza dello sguardo semplice sull'eternità sembra essere oggi un tesoro della gente umile, non dei colti e dei preti. Non c'è dubbio che il Signore l'ha seminata nel nostro campo; tuttavia sono cresciute tante erbe e hanno fatto sì che le parole sull'eternità diventassero un paludamento verbale, affettato, non immediato, non zampillante da una grazia sorgiva. Stranamente il Signore ha diffuso tale grazia addirittura in persone che non hanno condotto una vita buona, nei peccatori che, forse proprio per il loro passato, awertono maggiormente questo dono. Ho conosciuto, per esempio, dei giovani drogati e malati di Aids che, in punto di morte, vivevano lucidamente e serenamente la percezione dell'eternità, la sentivano con gioia, ne parlavano con libertà. E’ un mistero che ci ricorda le parole di Gesù: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”«I» (Mt 21, 31).

2. "La morte in relazione a Cristo", in relazione stretta con Gesù. - Richiamo Fil 1, 21. 23: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno”«Per». Non è una frase che si possa inventare letterariamente! «a» Ancora, in I Ts 4,17: «Saremo» in Fil 3, 20-21: “La nostra patria invece è «La»nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose».

L'espressione tipica di Paolo, quella di “essere con Cristo” «essere», ritorna in tanti passi a riguardo della morte.

3. "La morte come sacrificio, unito a quello di Gesù". -I brani di II Tm 4,6 e di Fil 2,17-18, ci hanno aiutato a comprendere come soprattutto la morte causata dalla persecuzione e dal martirio è imitazione suprema della morte che fu propria di Gesù. E’ importante questa lettura sacrificale della morte ed evidenzia che il Signore si è impadronito del cuore di Paolo e l'ha trasformato nel suo. La vita delle persone è normalmente il contrario del sacrificio offerto, dell'immolazione; gli uomini e le donne d'oggi cercano di salvare la salute a ogni costo, di salvare le comodità, di riuscire ad avere successo senza preoccuparsi di altro.

4. Dalla coscienza profonda della relazione con Cristo, nasce in Paolo la capacità di leggere la sua morte come morte per altri. Egli vive la gioia di dare la vita per gli altri, e in proposito vi suggerisco di riprendere i testi di Col 1, 24; II Tm 2, 20; II Tm 4, 6. Se siamo davvero in e con Gesù, veniamo spinti a operare a favore della Chiesa, affinché il sacrificio vivente della Chiesa abbia il suo culmine.

5. "La morte come sereno commiato", fine tranquillo di un viaggio, traguardo della corsa faticosa, termine della lotta dura che talora sembrava incerta nell'esito e che invece si è conclusa bene. Le metafore di II Tm 4, 6-8 ci offrono una visione pacificante della morte, perché a Paolo, purificato dalle numerose prove e dalle persecuzioni, essa è divenuta familiare.

IL TESTAMENTO DI PAOLO VI

 

Nel corso della riunione della Congregazione Generale dei Cardinali, giovedì 10 agosto, è stato letto il testo delle ultime volontà di Paolo VI, testo che prima della pubblicazione è stato portato a conoscenza dei familiari. Il testamento consiste in uno scritto del 30 giugno 1965, integrato da due aggiunte, una del 1972 e un’altra del 1973. Sono in tutto quattordici pagine manoscritte. Il primo dei tre testi è scritto su tre fogli grandi, formato lettera, ciascuno di quattro facciate. Paolo VI ha numerato la prima pagina dei tre fogli di suo pugno ed ha apposto la sua firma anche a margine della quarta facciata del foglio I. In tutto sono undici facciate scritte. La prima aggiunta fu fatta a Castel Gandolfo e, oltre alla data, reca anche l’indicazione dell’ora: 16 settembre 1972, ore 7,30. Si tratta di due foglietti manoscritti. Il primo reca tra parentesi, in alto, accanto allo stemma pontificio l’indicazione «Note complementari al testamento 8. La seconda, intitolata « Aggiunta alle mie disposizioni testamentarie », consiste in poche righe scritte su un unico foglio il 14 luglio 1973.

Alcune note per il mio testamento

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

1. Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce.

Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita.

Parimente sento il dovere di ringraziare e di benedire chi a me fu tramite dei doni della vita, da Te, o Signore, elargitimi: chi nella vita mi ha introdotto (oh! siano benedetti i miei degnissimi Genitori!), chi mi ha educato, benvoluto, beneficato, aiutato, circondato di buoni esempi, di cure, di affetto, di fiducia, di bontà, di cortesia, di amicizia, di fedeltà, di ossequio. Guardo con riconoscenza ai rapporti naturali e spirituali che hanno dato origine, assistenza, conforto, significato alla mia umile esistenza: quanti doni, quante cose belle ed alte, quanta speranza ho io ricevuto in questo mondo! Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite? Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica? Come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? Come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa, a Roma specialmente, accanto al Papa, poi a Milano, come arcivescovo, sulla cattedra, per me troppo alta, e venerabilissima dei santi Ambrogio e Carlo, e finalmente su questa suprema e formidabile e santissima di San Pietro? In aeternum Domini misericordias cantabo.

Siano salutati e benedetti tutti quelli che io ho incontrati nel mio pellegrinaggio terreno; coloro che mi furono collaboratori, consiglieri ed amici - e tanti furono, e così buoni e generosi e cari! benedetti coloro che accolsero il mio ministero, e che mi furono figli e fratelli in nostro Signore!

A voi, Lodovico e Francesco, fratelli di sangue e di spirito, e a voi tutti carissimi di casa mia, che nulla a me avete chiesto, né da me avuto di terreno favore, e che mi avete sempre dato esempio di virtù umane e cristiane, che mi avete capito, con tanta discrezione e cordialità, e che soprattutto mi avete aiutato a cercare nella vita presente la via verso quella futura, sia la mia pace e la mia benedizione.

Il pensiero si volge indietro e si allarga d’intorno; e ben so che non sarebbe felice questo commiato, se non avesse memoria del perdono da chiedere a quanti io avessi offeso, non servito, non abbastanza amato; e del perdono altresì che qualcuno desiderasse da me. Che la pace del Signore sia con noi.

E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica ed apostolica, ricevi col mio benedicente saluto il mio supremo atto d’amore.

A te, Roma, diocesi di San Pietro e del Vicario di Cristo, dilettissima a questo ultimo servo dei servi di Dio, la mia benedizione più paterna e più piena, affinché Tu Urbe dell’orbe, sia sempre memore della tua misteriosa vocazione, e con umana virtù e con fede cristiana sappia rispondere, per quanto sarà lunga la storia del mondo, alla tua spirituale e universale missione.

Ed a Voi tutti, venerati Fratelli nell’Episcopato, il mio cordiale e riverente saluto; sono con voi nell’unica fede, nella medesima carità, nel comune impegno apostolico, nel solidale servizio al Vangelo, per l’edificazione della Chiesa di Cristo e per la salvezza dell’intera umanità. Ai Sacerdoti tutti, ai Religiosi e alle Religiose, agli Alunni dei nostri Seminari, ai Cattolici fedeli e militanti, ai giovani, ai sofferenti, ai poveri, ai cercatori della verità e della giustizia, a tutti la benedizione del Papa, che muore.

E così, con particolare riverenza e riconoscenza ai Signori Cardinali ed a tutta la Curia romana: davanti a voi, che mi circondate più da vicino, professo solennemente la nostra Fede, dichiaro la nostra Speranza, celebro la Carità che non muore, accettando umilmente dalla divina volontà la morte che mi è destinata, invocando la grande misericordia del Signore, implorando la clemente intercessione di Maria santissima, degli Angeli e dei anti, e raccomandando l’anima mia al suffragio dei buoni.

2. Nomino la Santa Sede mio erede universale: mi obbligano a ciò dovere, gratitudine, amore. Salvo le disposizioni qui sotto indicate.

3. Sia esecutore testamentario il mio Segretario privato. Egli vorrà consigliarsi con la Segreteria di Stato e uniformarsi alle norme giuridiche vigenti e alle buone usanze ecclesiastiche.

4. Circa le cose di questo mondo: mi propongo di morire povero, e di semplificare così ogni questione al riguardo.

Per quanto riguarda cose mobili e immobili di mia personale proprietà, che ancora restassero di provenienza familiare, ne dispongano i miei Fratelli Lodovico e Francesco liberamente; li prego di qualche suffragio per l’anima mia e per quelle dei nostri Defunti. Vogliano erogare qualche elemosina a persone bisognose o ad opere buone. Tengano per sé, e diano a chi merita e desidera qualche ricordo dalle cose, o dagli oggetti religiosi, o dai libri di mia appartenenza. Distruggano note, quaderni, corrispondenza, scritti miei personali.

Delle altre cose che si possano dire mie proprie: disponga, come esecutore testamentario, il mio Segretario privato, tenendo qualche ricordo per sé, e dando alle persone più amiche qualche piccolo oggetto in memoria. Gradirei che fossero distrutti manoscritti e note di mia mano; e che della corrispondenza ricevuta, di carattere spirituale e riservato, fosse bruciato quanto non era destinato all’altrui conoscenza.

Nel caso che l’esecutore testamentario a ciò non possa provvedere, voglia assumerne incarico la Segreteria di Stato.

5. Raccomando vivamente di disporre per convenienti suffragi e per generose elemosine, per quanto è possibile.

Circa i funerali: siano pii e semplici (si tolga il catafalco ora in uso per le esequie pontificie, per sostituirvi apparato umile e decoroso).

La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me.

6. E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante. Sullo stato della Chiesa; abbia essa ascolto a qualche nostra parola, che per lei pronunciammo con gravità e con amore. Sul Concilio: si veda di condurlo a buon termine, e si provveda ad eseguirne fedelmente le prescrizioni. Sull’ecumenismo : si prosegua l’opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza, con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica. Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo.

Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà. Ancora benedico tutti. Roma specialmente, Milano e Brescia. Alla Terra santa, la Terra di Gesù, dove fui pellegrino di fede e di pace, uno speciale benedicente saluto.

E alla Chiesa, alla dilettissima Chiesa cattolica, all’umanità intera, la mia apostolica benedizione.

Poi: in manus Tuas, Domine, commendo spiritum meum.

Ego: Paulus PP. VI.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il 30 giugno 1965, anno III del nostro Pontificato.

Note complementari al mio testamento

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. Magnificat anima mea Dominum. Maria!

Credo. Spero. Amo.

Ringrazio quanti mi hanno fatto del bene.

Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace.

Saluto il carissimo Fratello Lodovico e tutti i miei familiari e parenti e amici, e quanti hanno accolto il mio ministero. A tutti i collaboratori, grazie. Alla Segreteria di Stato particolarmente.

Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera. Quam diletta tabernacula tua, Domine!

Ogni mia cosa sia della Santa Sede.

Provveda il mio Segretario particolare, il caro Don Pasquale Macchi, a disporre per qualche suffragio e qualche beneficenza, e ad assegnare qualche ricordo fra libri e oggetti a me appartenuti a sé e a persone care.

Non desidero alcuna tomba speciale.

Qualche preghiera affinché Dio mi usi misericordia.

In Te, Domine, speravi. Amen, alleluia.

A tutti la mia benedizione, in nomine Domini.

PAULUS PP. VI

Castel Gandolfo, 16 settembre 1972, ore 7,30.

Aggiunta alle mie disposizioni testamentarie

Desidero che i miei funerali siano semplicissimi e non desidero né tomba speciale, né alcun monumento. Qualche suffragio (beneficenze e preghiere).

PAULUS PP. VI

14 luglio 1973

 

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